La scena che resta appiccicata allo spettatore è quella in cui il giovane protagonista Filippo, impegnato in una romantica gita in barca notturna con un’ iper-stereotipata turista milanese, proprio quando il topless della ragazza (annunciato con largo anticipo dalla sceneggiatura) finalmente si realizza, si trova costretto a respingere a colpi di remo gli immigrati che cercano disperato soccorso dopo avere abbandonato il loro barcone.
La scelta del ragazzo non è dettata da una deriva di leghismo supermeridionale (il film, Terraferma di Emanuele Crialese, omaggiato del Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia, è ambientato sull’isola di Linosa, l’ultima prima di Lampedusa) bensì dalla paura della legge che punisce senza pietà chi presta aiuto ai clandestini. È questo conflitto morale che regala appeal a un’opera imperfetta (sporcata da qualche autocompiacimento registico e incompiuta in alcune parti), ma non è questa la dote di significato più corposa della storia. Né tantomeno lo è l’insistito e ostentato accostamento turisti-immigrati (irritante la scena in cui i vacanzieri, ammassati su una barca turistica come i clandestini sui barconi, ballano scompostamente Maracaibo prima di tuffarsi in acqua).
L’analisi antropologica (volontaria? Inconscia? Chissà) più sottile di Terraferma tocca il confronto generazionale di fronte al Problema, maiuscolo perché non risiede solo nel dramma dell’immigrazione ma, per metonimia, dell’intera crisi del sistema socio-economico italiano (occidentale). Sotto questo aspetto, per ragione o per istinto, il film sa essere diretto e subliminale allo stesso tempo.
La prima generazione, nata fra le due guerre. Il vecchio, il nonno malato e cocciuto, è l’ultimo baluardo di una generazione capace di costruire una fortuna su basi solide e antiche (sulla pesca in questo caso), ormai esaurita per ragioni fisiologiche ma anche per l’irresponsabilità di chi l’ha ereditata. Di fronte al conflitto etico non ha dubbi, i clandestini vanno soccorsi, legge o non legge, perché l’unico modo per risolvere il Problema è affrontarlo nella sua concretezza senza tradire se stessi, nè gli altri.
La seconda generazione. Il padre (di Filippo) non c’è, è morto, per un’assenza che non sembra casuale, ma a rappresentare malamente la sua generazione di nati negli anni 60 resta il fratello, un Beppe Fiorello sopra le righe che di dubbi ne ancora meno del suo vecchio: per lui,, però i clandestini vanno lasciati annegare, perché fanno “cattiva pubblicità” all’isola e compromettono l’afflusso di turisti. È la generazione di chi ha preso la fortuna dei padri e l’ha usata giocando con il settore terziario, con il mercato dei beni non necessari, senza accorgersi che qualcosa, nella responsabilità sociale e politica quando non nella stessa capacità di previsione economica, si stava perdendo lungo la strada. Ora che l’illusione sta crollando, è troppo tardi per assumersene la responsabilità. Meglio far finta di nulla, e continuare a cantare Maracaibo.
La terza generazione. Infine il ventenne, il protagonista Filippo che mai è stato preparato all’eventualità di affrontare il Problema, diviso fra la fortuna in esaurimento del nonno e quella effimera dello zio, crede che i beni necessari siano dovuti, sembra un ragazzino viziato nonostante sia cresciuto in una terra piuttosto povera (paradosso dell’occidentale che si sente ricco anche quando ha le pezze sul didietro?). Fosse nato a Milano, sarebbe un bimbominkia. L’idea di avere un Problema da affrontare non lo sfiorava neppure e invece se lo ritrova sulle spalle, o meglio sulla barca. È spaesato. Ma nella sua presa di consapevolezza finale c’è almeno la speranza di una generazione che, per virtù o per necessità, ha ancora tempo di riprendere contatto con la realtà e assumersi una responsabilità sociale affezionata al bene comune.