La morte di Giorgio Bocca mi colpisce particolarmente per una ragione profonda, di natura famigliare, che tuttavia credo possa dare un piccolo contributo per illuminare l intima figura di uno degli ultimi grandi del giornalismo non solo italiano. Un giornalismo nato sull’onda della Lotta di Liberazione Nazionale soprattutto nei giornali di provincia meno importanti per la formazione dell’ orientamento nazionale, ma pepiniére di fantastici professionisti, tutti scrittori e sociologi d’ istinto. Bocca, come pochi altri, scrive, infatti, dapprima sull’ organo piemontese di Giustizia e Libertà e poi si forma in quella grande fucina di volenterosi cronisti e analisti delle cose del mondo che fu a Torino “ La Gazzetta del Popolo”( con firme come quelle di Zatterin, di Vecchiato e dei più giovani Roccati e Carcano), in polemica con “ La Stampa”( che gli operai socialisti e comunisti torinesi chiamavano la busiuarda-la bugiarda):da un lato la proprietà pubblica, dall’ altro la FIAT, in una singolar tenzone che durerà sino agli anni ottanta del Novecento, con la scomparsa di un giornale storico, libero e coraggioso. Bocca, come è noto, inizierà poi una carriera folgorante sulla scia di grandi Maestri come Baldacci e Pietra a “Il Giorno “di Enrico Mattei, il quale anche nel giornalismo inaugurò uno stile inedito in Italia: l’ inchiesta, il coraggio di pensare non conformisticamente, dando spazio ai giovani, come era nello stile ineguagliabile del Mattei protagonista della modernizzazione italiana e dell’anticolonialismo, sino a pagare con la vita queste Sue doti. ù
Bocca veniva, dunque, come Mattei, del resto, dalla lotta partigiana: questo è stato il fil rouge di tutta la Sua vita. Ed è qui che le nostre storie si legano. Avevo letto diciassettenne quel libretto, quasi clandestino se non per gli amatori, che Bocca aveva scritto con Giampaolo Pansa e con uno dei miei maestri torinese di vita morale (con Franco Antonicelli, Alessandro Passerin d’ Entreves, Massimo Mila e Ugo Pecchioli): Mario Giovana, partigiano combattente GL, poi istruttore militare in Algeria a fianco di Ben Bella e poi, ancora, segretario piemontese del Partito Socialista di Unità Proletaria dopo la scissione con lo PSI nel 1964, scrittore fecondo e implacabile polemista sempre dalla parte della ragione: La Resistenza nel saluzzese, Saluzzo, RPC, 1964. Era la storia, in filigrana, con una distanza ben tenuta, dell’ esperienza dello stesso Bocca. Egli aveva presto superato, nella tragedia della guerra, le posizioni filofasciste universitarie e, negli anni più duri della repressione nazi- fascista, aveva conosciuto i due capi morali e combattenti della Resistenza nel Cuneese, Benedetto Dalmastro e Duccio Galimberti, che intravisero in Lui un durugente colto, coraggioso e determinato e ne fecero uno dei protagonisti della guerra per bande che si scatenò nelle montagne della Val Grana, della Val Maira e della Val Varaita. Bocca avrà anche un ruolo politico di primo piano, che Lui ha sempre sottovalutato e nascosto nell’ agone di una polemica che si farà via via rovente contro coloro che chiamava i “revisionisti”come Pansa, con il quale ebbe un polemica dolorosa e implacabile. Il 5 maggio 1944, con Benedetto Dalmastro partecipa, al Col Soutron, a un incontro con il maquis francese della Seconda Regione Alpi Marittime per coordinare le azioni militari tra i gruppi italiani e francesi, iniziando ad affrontare anche la delicata questione valdostana.
Terminerà la Lotta combattendo in Val Maira, come Commissario Politico della seconda Divisione “GL”. Una lotta durissima, implacabile, soprattutto dopo e durante l’ inverno del 1944 , allorchè il generale Alexander intimerà ai partigiani di ritirarsi dalla lotta e non invierà più i sostegni militari e materiali che consentivano di rendere meno dura la vita e la lotta. Il massacro di Boves, città martire della Resistenza, bene testimonia della durezza inaudita dei combattimenti e del profondo radicamento popolare della guerriglia partigiana. Mio padre aveva dovuto fuggire in quel terribile inverno da Alessandria, dove operava con falso nome in una tipografia partigiana che apparentemente svolgeva un regolare compito imprenditoriale e in verità era un centro di fabbricazione di passaporti, lascia- passare, carte d’ identità ch’ erano indispensabili alle staffette e ai combattenti. Fuggiti che furono da Alessandria perchè avvisati da un tenente della Wermath che la Gestapo l’ indomani li avrebbe imprigionati sorprendendoli (quel tenente, mi ricordava mio padre, ch’ era un operaio che leggeva Goethe, volle testimoniare la sua fede socialdemocratica e l’esistenza di una presenza non nazista nel popolo tedesco). Mio padre e il Suo amico proprietario della tipografia (il fratello e la moglie il giorno dopo la loro fuga che non vollero condividere, furono deportati a Mathaunsen, dove morirono), mio padre si diresse non nel Monferrato, dove v’ era una più debole lotta e dove più alte erano le possibilità d’ essere riconosciuti, ma, invece, verso la Val Maira, con una marcia incredibilmente avventurosa e terribile Lì divenne giovane combattente della Brigata in cui Bocca svolgeva il compito, di fatto, di commissario politico. Mio padre veniva da quattro anni di guerra d’ Africa, da una fuga perigliosa dall’ ospedale militare di Napoli dov’era stato internato con la scabbia e, soprattutto, portava con sé la dote di un contatto strettissimo con i Salesiani di Torino, il mondo cattolico e un legame inauguratosi durante una breve permanenza clandestina a Torino con Felice Balbo, al quale lo legherà una dedizione ininterrotta sino alla morte. Un mondo tutto diverso da quello di Bocca: anticlericale, illuminista, anticomunista.
Ma la Resistenza fu una Lotta di Liberazione Nazionale nel vero senso del termine, dove tutte le divisioni venivano a comporsi nella comune identità patriottica. Per questo il legame tra me e Giorgio fu sempre profondissimo: quando papà morì Giorgio lo ricordò ai compagni dell’ ANPI a cui Lui non apparteneva, perché aderì in seguito alla FIAP (azionista) con parole che non potrò mai dimenticare. Vi era tutto Bocca in quelle parole: acuto come una spada non mancava mai di ricercare la verità ovunque fosse. Lo ricordo quando all’ Archivio Centrale dello Stato lavorava a quella ch’ io considero ancora oggi, mi scusi profondamente Aldo Agosti, amico carissimo, la più acuta biografia di Togliatti. Infatti, documento dopo documento, discussione dopo discussione- io preparavo all’ Archivio la mia tesi di laurea che fu poi pubblicata da Feltrinelli- vedevo crescere il Suo libro: Palmiro Togliatti, Roma-Bari, Laterza, 1973. Implacabile: ecco un’ altra volta che il Suo carattere inflessibile mi viene alla mente. Con l’ analisi dello stalinismo Bocca era riuscito a entrare nelle viscere della grandezza e della miseria del comunismo italiano più di tanti altri esegeti eruditi e accademici: l’ intreccio tra questioni nazionali e questioni internazionali era sempre presente in Togliatti e Bocca colpì esattamente nel segno con un libro ancor oggi molto utile: a nove anni della morte de “Il migliore” non era poco. Io ero e sono affascinato dalla Sua prosa ricca sempre di contenuti: la stessa delle Sue inchieste de “Il Giorno” e poi di “La Republica” di cui fu uno degli indimenticabili fondatori.
La libertà del pensare con il concetto! Uno stile hegeliano, Gli ricordavo con ironia ( perché tutti e due abbiamo sempre irriso alla “boria dei dotti”); uno stile che era alla base di una prosa ricca, colta, attenta alla realtà prima che alle opinioni. Per questo non deve stupire che Bocca guardasse con interesse al fenomeno del Berlusconi televisivo, con il quale collaborò con intelligenza ( e non a caso uno dei Suoi ultimi “pezzi” si riferisce con furore sprezzante, implacabile…, al Loro rapporto) e poi alla Lega, di cui colse uno spirito libertario e anticonformista che non poteva non attrarre un uomo che si avviava alla delusione e alla rabbia, che furono la cifra della scrittura dei Suoi ultimi anni, quasi immobilìzzato per le gambe che non lo reggevano, ma con un cervello fervido più che mai. Lo debbo ringraziare perché in alcuni Suoi libri e interviste diede voce al mio lavoro scientifico e perchè sino all’ ultimo mi onorò di una amicizia che per me fu sempre un tesoro ineguagliabile, In questo Bocca fu un vero “azionista”, ossia un vero militante, un partigiano in senso gobettiano, che antepose sempre la ragione morale alla tattica politica. Fu un grande moralista. Solo in Italia la parola “moralista” suona a disdegno, a differenza della Francia, per esempio: Montaigne non fu forse un grande moralista? Comprendeva bene, Giorgio Bocca, perché una generazione di giovani operai come me e come mio padre prima di me non avevano potuto non essere stati comunisti nella Torino della FIAT di Valletta e di Garavini e di Minucci e di Vertone e del Cardinal Pellegrino: anche noi, per Lui, eravamo dei moralisti. E, infatti, mi diceva beffardo, e amato per la Sua beffardaggine che non avevamo potuto più esserlo, comunisti, dopo la fine del sogno di Giorgio Amendola di fare del PCI un partito rifornista.
L’ URSS non faceva sconti e se si rompeva con l’ URSS non si poteva non rompere con il Partito. Per questo dopo l’inizio degli anni ottanta la nostra amicizia si fece per me più matura, abbandonato ch’era il sogno amendoliano. Ero divenuto complice di una vicenda Sua personale di cui spesso non condividevo tutti i toni esasperati, ma lo capivo come Lui aveva capito me in anni terribili: quelli dello stalinismo, quando anche ai troskisti come chi scrive, rimanevano sempre meno spazi di azione in un partito che abbandonava sempre più il rigore teorico e quindi non lasciava spazio alla lotta intellettuale per divenire soprattutto un macchina di potere. La lotta contro il potere: ecco il segreto di Giorgio Bocca: non arrendersi mai al potere, denunciarlo in ogni sua piega quando da strumento diveniva fine. Ma il potere può rimaner mezzo solo se si possiede quella fibra morale dell’anti -italiano Giogio Bocca, formatosi sotto l’ala di quel patriottismo non nazionalista ch’era stata la Resistenza, periodo ineguagliabile e irripetibile della storia d’ Italia.