Se mi avessero chiesto da giovane ragazzo operaio torinese cosa potevo fare di bello una volta finito il lavoro e prima di avviarmi alla scuola serale, non avrei avuto di meglio da rispondere che andare all’oratorio per giocare al calcio, dire una preghiera alla sera e riunirsi il sabato e la domenica. Poi sarebbe venuta la sezione del PCI a cui ci si iscrisse senza perdere la fede perché c’erano gli operai comunisti, non tanto e non soprattutto gli intellettuali che riempivano già allora le pagine dei giornali torinesi ( allora oltre “La Stampa” c’era” La Gazzetta del Popolo” ed era un bel vivere), ma che non riuscivano a entusiasmarci, gli intellettuali, a fronte della dignità e della compostezza che invece quelli che per noi erano i profeti di una nuova era, possedevano.
Oratorio (Flickr – Lindo1985)
Se non ci fosse stato l’oratorio, dove saremmo finiti? Nelle mani dei clan dei calabresi che conquistarono presto le case popolari e un partito operaio che rapidamente trasformarono, oppure ci saremmo buttati nelle avventure spregiudicate in cui erano caduti molti nostri amici per l’ ansia di avere delle auto con cui scorrazzare le ragazze che noi, invece, facevamo sedere su delle più scomode, ma sempre eleganti canne di bicicletta ben lustrate e pulite giorno dopo giorno? Non era un destino individuale.
L’ avrei capito anni dopo in Nigeria, con le suore di Maria Ausiliatrice che aprivano alle quattro e mezza del mattino le porte dell’ospedale dell’Eni e accoglievano le lunghe file di madri che attendevano tutta la notte per avere un gesto di conforto più che una medecina. L’ avrei capito a Parigi, nelle banlieu più disperate dove giovani preti operai, quando uscivano dalle mattinate passate nella biblioteca dell’ Institut des Etudes Catholique, si recavano nei dormitori delle fabbriche per parlare con gli operai, mangiare con loro, confessarli e aiutarli nell’ organizzazione sindacale, senza un gesto di rabbia e di insofferenza per gli insulti che gli antesignani di Marchionne (sono sempre esistiti, non sono una novità, nè per me, né per quelli di quei miei compagni di gioventù che son rimasti in vita) rivolgevano loro. L’ avrei capito a Londra, quando dinanzi al Tavistock Institut scendevo le scale di una piccola chiesa cattolica i cui angoli non emanavano odori di gelsomino e la mattina presto ancora i barboni dormivano negli ultimi banchi coperti di giornali e di scialli che le pie donne davano loro.
E avrei sentito la presenza delle Chiese in Sud America, laddove gli evangelici che non riunivano le masse negli stadi per tifare per Dio perdendone in tal modo per sempre la Grazia, organizzavano i senza terra e i campesinos, dove la teologia della liberazione aveva perso la sua battaglia con chi non si rendeva conto di quanto difficile fosse il percorso di Gesù tra le torture e le mille sofferenze: c’ è posto per tutti nella fede, anche per i non cattolici, purché ci sia una fede e una Chiesa che venga dal lungo percorso di passione e di amore di quel “Gesù che passa” e che parla a noi ogni giorno. E poi avrei visto la presenza della Chiesa nelle case per anziani dove chi non poteva essere solvente era aiutato non a morire, ma a vivere e a voler continuare a vivere grazie all’ amore che manifestavano gentili suore e gentili volontarie e volontari che sollevavano capi, rivoltavano corpi, compivano i lavori più umili e scabrosi per la pudicizia rivolgendo all’ Eterno il loro sacrificio con una letizia sovrumana. Ecco il bene comune della presenza delle Chiese, delle Chiese, in un libero Stato e che è incommensurabile e quindi non può essere tassata e non può essere distinta dall’ essere e dall’avere, dallo scambio e dal dono: con il dono anche lo scambio fa tutt’ uno ed è a questo che bisogna pensare. Le Chiese fanno ciò che lo stato non potrebbe mai fare se non con costi inimmaginabili e sostituiti dalla forza dell’amore e dal sogno della Redenzione che per il cristiano è la certezza di una teodicea salvatrice.
Certo, le piaghe della Chiesa e delle Chiese esistono sempre e fan dimenticare queste ragioni donative e queste verità che debbono indurre lo stato a ritirarsi. I sacerdoti, lo diceva già Rosmini, lo diceva Escrivà, e non a caso oggi sono entrambi Santi: i sacerdoti debbono solo amministrare le anime e non i beni, debbono rifuggere dal maneggiare il denaro così come le idee che non siano quelle sapienziali delle Sacre Scritture e dei Sacramenti. Solo l’ esempio fonda la convinzione negli altri e ogni cattivo esempio, non solo verso i fanciulli, distrugge mille discorsi fondati sulla ragione.
È l’amore che deve vincere sulle tasse, così la pensavo da giovane in bicicletta per i quartieri di una Torino che non c’è più; così la penso oggi per le vie di un modo che non c’ è ancora.
(Giulio Sapelli)