Quello che non c’èQuello che non c’è: il Diavolo a Milano.

Il Diavolo, a un certo punto, decise di trasferirsi per l'ennesima volta nel corso di una delle sue frequenti trasferte terrene. San Pietroburgo l'aveva vista, la Germania la conosceva a menadito, ...

Il Diavolo, a un certo punto, decise di trasferirsi per l’ennesima volta nel corso di una delle sue frequenti trasferte terrene. San Pietroburgo l’aveva vista, la Germania la conosceva a menadito, ma ricordò pure una città, caruccia, la capitale morale di quello staterello buffo e superbo che è l’Italia, ce l’aveva portato qualche anno addietro uno stregone, che scriveva sui giornali articoli come racconti, e non s’era trovato mica male. Il Diavolo venne a Milano.

Giunse qualche giorno fa, basso profilo, un appartamento in una zona nè troppo periferica nè eccessivamente centrale della Metropoli Stanca. Al Diavolo piace camminare, dunque fece parcheggiare a Caronte il Carro Funebre nel cortile interno della casa di corte dove aveva preso alloggio. Disse al nocchiero che poteva prendersi qualche giorno libero, poichè nelle intenzioni del demonio c’era quella di girare a piedi per la città e aggiornarsi sulla situazione, architettare qualche marachella un po’ complessa e un po’ corale da orchestrare ai danni dei dinamici, ben presto avrebbe scoperto schizofrenici, cittadini di quella simpatica città fatta di fumi e nebbie, per i romantici, di gas di scarico e umidità per i realisti.

Non furono tanto le feci di cane che pestò con i suoi zoccoletti in via Grazioli, nè l’inciampare nelle imperfezioni del selciato lasciato all’incuria più totale sulla via Pellegrino Rossi. Nemmeno rischiare di venire investito al semaforo, che nemmeno proprio lui così diabolico aveva attraversato con il rosso, e venire mandato a quel paese da una signora bionda che guidava con una sigaretta tra le dita sinistre e un auricolare nelle orecchie: le gridò appresso soltanto, “A te t’aggiusto io!”

La visione dell’Ambulanza che non riusciva a impegnare l’incrocio perchè nessuno le cedeva il passo, lo convinse, con un ghigno, di essere nel posto giusto, finché un ciclista non lo urtò per il semplice motivo che si trovava in mezzo ai pedali, sbilanciandolo contro un fuoristrada parcheggiato sul marciapiedi, scattò l’antifurto, un gruppo di cani senza guinzaglio accompagnati da un branco di uomini gli si avventò addosso latrando e ringhiando, il Diavolo ebbe una vertigine, non sapeva che fare, qualsiasi reazione sovrannaturale ne avrebbe rivelata l’entità e la presenza, cosicchè corse, verso la fermata, e salì sulla 70.

Credette di fare chissà quale gesto malvagio non timbrando il biglietto, ma portoghesi ben più esperti di lui lo derisero quando, notando a distanza i controllori in agguato alla fermata successiva, corsero forsennatamente lontani, lasciandolo là, tapino, a buscarsi la multa. L’anziano gendarme dell’azienda dei trasporti metropolitani lo sfottè, “Da quando c’è la metro qui voi furbi viaggiate tutti sulla 70, nè, perchè in metro non si scappa… ma una volta ogni tre mesi qui vi si controlla, pirla!”

Il Diavolo, confuso, pagò lo scotto, e decise di continuare a piedi. Infiniti dehors, traffico irrespirabile pure per lui abituato ai miasmi degli Inferi, bevve un caffè mentre un signore con quattro occhi e meno capelli si lamentava dell’aumento a un euro ed esigeva lo scontrino, declamando il paradosso, “Io sono un educatore fiscale, combatto il governo combattendo l’evasione!”. Il Diavolo sapeva, perché è il suo mestiere, di tutti i rimborsi fasulli che l’uomo aveva chiesto nella sua vita, delle fatture scalate dalle tasse di oggetti che non aveva acquistato… Gli lanciò una gastrite cronica, e gli consigliò che “Se il caffè la innervosisce così tanto, non lo beva…”

La gente camminava per la strada parlando da sola nei telefonini; le auto formavano travolgenti piene che avrebbero fatto desistere anche Crocodile Dundee; i Vigili avevano aspetti deformi, crucciati da un mestiere infamante, impossibile a svolgersi; dai locali uscivano ragazzotti convinti, sigaretta in una mano, cellulare nell’altra, Negroni nell’altra, una mano sul pacco, bestemmia, scatarrata, vestivano in quindici o sedici mode differenti ma il Diavolo riconobbe le stesse anime inutili, identiche, in ciascuno di loro.

Si parlavano mille lingue, il Diavolo le conosceva tutte. I sogni si realizzavano, a pagamento, in ogni vetrina: dal sesso massaggiato, all’ostentazione di ricchezza tramite possesso, al successo e la fama in riunioni di intellighenzie vanagloriose e soprattutto vacue. Quelli che inveivano contro l’evasione fiscale alimentavano le mafie acquistando hashish da improbabili spacciatori in appartamenti al piano rialzato. La gente supponeva una superiorità immotivata nei confronti di chiunque, l’umiltà era un difetto di pochi, grazie a Dio, pardòn, al Diavolo.

Una zingarella di tredici anni gli disse di essere una ragazza madre e di aver bisogno dei soldi per il latte del bambino; due nigeriani si stavano bucando nell’androne di un palazzo, quella notte; una festa di sudamericani si tramutò in un macello suino, un uomo pestò la moglie come una cotoletta mentre i vicini alzavano il volume del televisore. Sì, e il Diavolo vide anche te, là dietro, che buttavi un sacchetto d’immondizia in un cestino pubblico perché non paghi la tassa sui rifiuti, e ti dirò, ti diede pure del principiante!

Poi il Diavolo, passando in Stazione Centrale, scese in metrò, giunse di fronte a un distributore di bibite e cercò le monete false per bere qualcosa nel portafogli, ma il portafogli non c’era più. Fece mente locale, glielo aveva fregato un tipo, un terrone, sì, ma con l’accento di Milano, qualche minuto prima, e nemmeno se n’era accorto, povero Diavolo…

S’infuriò. Decise che avrebbe devastato la città. Tornò a casa. Tolse il completo nero, molto sobrio ed elegante, con cui era andato a spasso, e indossò la tenuta da lavoro che più apprezzava: calzoni militari neri, giubbetto in pelle, fazzoletto scuro, berretto passamontagna, anfibi con punta antinfotunistica. Mazzetta, fionda, accendino, e tutti i poteri del Diavolo.

Si fiondò in strada, con l’ausilio della notte. Diede fuoco alle auto, e irrorò di zolfo i marciapiedi, di modo che i cani si sarebbero urticati osando cagare sull’asfalto. Tagliò le gomme a tutti i SUV, e infilò dei cartelli di divieto di sosta accanto a ciascuno. Richiamò in servizio Caronte, e gli affidò un tram con cui traghettare direttamente i portoghesi ad una fermata della corriera di Cassino, dove i mezzi passano per grazia del Signore, che a volte è più dispettoso del Diavolo. E travestì da controllori una masnada di diavoletti per far dispetto a chi ancora ci provava. Provocò un vento che ricacciava lo scaracchio in gola allo sputatore, abbattè i ripetitori dei segnali per i telefonini, dissestò le carreggiate, polverizzò i registratori di cassa, trasformò in fruste e bastoni le braccia dei Vigili, diede fuoco alle immondizie, fece sparire ogni sostanza assimilabile alla droga da cui dipendevano ormai le felicità di moltissimi ragazzi…

Al mattino dopo, tutti furono costretti a muoversi a piedi. La città era quieta. Il Diavolo la guardò, spossato ma soddisfatto, convinto di averla dannata per sempre, negandole l’uso di auto telefoni sportelli bancari registratori di cassa hashish cocaina pistolini canini carte di credito bancomat. Ma la città era quieta.

Tre giorni dopo, quando fu scoperto che era stata tutta colpa del Diavolo, i milanesi d’ogni tinta e provenienza andarono a casa del Diavolo, lo scesero come se dìs chì a Milàn, e lo elessero Sindaco al posto di quello prima, detto il Peggiore, che d’altronde era un avvocato e quindi ben più diabolico del diavolo come insegnano al cinema.

Fu così che il Diavolo compì una buona azione per il semplice motivo che, a causa delle prospettive, di peggio rispetto a quelle in atto a Milano non si poteva mica farne.

Amen.

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