Non sciopera. Non fa rumore. Non parla. Anzi, a dirla tutta: sembra quasi non esistere. Eppure esattamente da un anno è uno dei detenuti palestinesi più sorvegliati. «Fermato» in modo rocambolesco in Europa, fatto sparire per tre settimane, poi portato davanti a un giudice israeliano. Quindi rinchiuso in un carcere di massima sicurezza.
Mentre si sospira per la fine dello sciopero della fame (dopo 66 giorni) di Khaled Adnan, c’è un altro protagonista delle carceri israeliane. Un uomo sul quale aleggiano misteri e contraddizioni. Si chiama Dirar Abu Sisi, ha 43 anni, una moglie (ucraina), sei figli che l’aspettano a casa, a Gaza City, e un lavoro alla centrale elettrica della Striscia.
Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio 2011 Abu Sisi sparisce. Era salito da poche ore su un treno alla stazione di Kharkov, in Ucraina. Destinazione: Kiev, a 500 chilometri di distanza, dove l’aspettava il fratello, da 15 anni in Olanda. Ma nella capitale l’uomo non ci arriverà mai. Veronika, la consorte, inizia a parlare subito di un rapimento dei servizi segreti. Anzi, dice di più: «quelli del Mossad hanno preso mio marito», denuncia. La donna passa giorni interi a parlare con giornalisti e diplomatici, politici e uomini dell’Intelligence ucraina. Ma niente.
Fino a quando, tre settimane dopo, una domenica pomeriggio, arriva l’ammissione da parte israeliana: l’ingegnere palestinese è nelle mani dello Stato ebraico. In stato di detenzione. A rendere pubblico qualcosa di competenza dei servizi segreti di Gerusalemme è stato un giudice del tribunale di Petah Tikva (vicino a Tel Aviv): il togato autorizza soltanto la pubblicazione del fatto che Abu Sisi sia in una galera israeliana. Quanto alle ragioni, il silenzio assoluto.
Passano i giorni. La famiglia del palestinese reclama il marito-padre a Gaza City. In Ucraina si chiedono come sia possibile che agenti dei servizi segreti stranieri vengano e facciano un po’ quel che gli pare. Spunta anche una prima versione, ufficiosa, sui motivi del «rapimento»: l’uomo da mesi lavorerebbe alla costruzione di una bomba potente e sarebbe in contatto con 007 siriani, libanesi, iraniani. Si tratterebbe, poi, dello stesso Abu Sisi indicato come uno degli uomini di fiducia di Hamas e quindi vicino a chi detiene da quasi cinque anni il soldato israeliano Gilad Shalit.
Elementi, indizi, sospetti, accuse. Quanto basta per convalidare il fermo. Poi il carcere. Intanto continuano le indiscrezioni. Raccontano, quelle voci, che Abu Sisi sarebbe stato prelevato un’ora dopo la partenza del treno ucraino da uomini vestiti con la divisa dell’ente ferroviario locale. L’operazione, tutta gestita dal Mossad, sarebbe scattata dopo l’ok delle autorità ucraine. L’ingegnere palestinese sarebbe poi stato portato all’aeroporto di Poltava, sempre un Ucraina. Una destinazione famosa già in passato per voli segreti con a bordo persone non meglio identificate. Arrivato in Israele, Abu Sisi sarebbe stato tenuto prima al centro di detenzione dello Shabak (il servizio di sicurezza dello Stato ebraico) di Petah Tikva, poi trasferito nella prigione di Shikma, vicino Ashqelon.
Poi di Abu Sisi si perdono le tracce. Di nuovo. Nessuno parla o scrive dell’uomo prelevato da un treno in corsa in Europa. Fino a quando, su Shehab News Agency, un’agenzia stampa, non compare il racconto di un ex detenuto, ex vicino di cella di Abu Sisi e ora libero grazie allo scambio tra i carcerati palestinesi e Gilad Shalit.
Rivela, il detenuto, quel che l’ingegnere di Gaza City gli avrebbe raccontato. «Sette uomini mi hanno ammanettato e bendato», avrebbe detto Abu Sisi. «Mi hanno prelevato da un treno, mi hanno portato vicino Kiev, mi hanno fatto sedere su una sedia e poi mi hanno detto: “Sai chi siamo? Quelli dell’intelligence israeliana”». Poi ad Abu Sisi quegli uomini avrebbero tolto la benda. «Ho visto davanti a me Yoram Cohen». Non è uno qualunque, Cohen. Di lì a qualche settimana diventerà il capo dello Shin Bet, i servizi di sicurezza dello Stato ebraico. Un numero uno «in pectore» che, in terra straniera (Ucraina), «sequestra» un cittadino e lo interroga. A chi di queste cose s’intende, la presenza di un uomo chiave della sicurezza israeliana sembra «altamente improbabile»: «Non è nella prassi dell’Intelligence dello Stato ebraico», dicono.
E comunque. Avrebbe raccontato ancora Abu Sisi: «Mi hanno fatto un sacco di domande su Gilad Shalit. Mi hanno chiesto conto dei miei rapporti con Al-Qassam, il braccio armato di Hamas». Gli agenti israeliani avrebbero fatto le stesse domande per ore. «Mi hanno anche malmenato, mi hanno tirato schiaffi, calci e pugni», avrebbe rivelato ancora l’ingegnere palestinese. «Sono andati avanti così per 5-6 ore». L’indicazione temporale, a dire il vero, è una stima. L’uomo palestinese non aveva orologi o altro.
La testimonianza finisce qui. Da Israele non hanno né confermato, né smentito. E restano ancora sconosciute le accuse, quelle vere. Anche se fonti qualificate si limitano a dire che l’accordo a cavallo tra settembre e ottobre 2011 per la liberazione di Gilad Shalit sarebbe avvenuto anche grazie ai «consigli» di Dirar Abu Sisi, l’ingegnere di Gaza City.
[nelle foto: Dirar Abu Sisi, nella sua prima apparizione pubblica, lo scorso anno, dopo il “rapimento” in territorio ucraino; poco sotto, i sei figli dell’ingegnere di Gaza City]