La finanza ha usurpato lo spazio della politica perché il mercato ha occupato le spazio della finanza. Il mercato finanziario in quanto tale è un problema, economico, politico, antropologico. Fare mercato di una relazione sociale fondamentale, quella fra debitore e creditore. Occorre una riforma della finanza. Questo è un compito politico. È un compito fondamentale e prioritario affinché la politica possa riguadagnare il suo spazio di potere, di libertà e di autorevolezza.
La crisi ha mostrato l’infondatezza di un’ideologia. Perfino uno dei suoi più strenui sostenitori, Alan Greenspan, ha dovuto riconoscerne la debacle in una memorabile audizione al Congresso americano. E di quale ideologia si tratta? Del neoliberismo, certo. Ma vale la pena di essere precisi: nelle parole delle stesso Greenspan, la fede nell’efficienza dei mercati finanziari. Ecco il paradosso: a dispetto del fatto che i loro danni sono sempre più evidenti e che la loro utilità è sempre più dubbia (come ha riconosciuto Greenspan, ma anche l’Economist di questa settimana: http://www.economist.com/node/21547245), i mercati finanziari continuano ad esercitare la loro egemonia. Anzi, l’hanno perfino rafforzata.
Per pensare al dopo crisi, bisogna innanzi tutto far sì che la crisi finisca. Se c’è una cosa che la storia insegna, è che le crisi non finiscono da sé. Come si fa, allora, a uscire dalla presente crisi, senza tornare indietro e senza rinunciare ai vantaggi della globalizzazione? Innanzi tutto, imparando a distinguere fra mercati dei beni, che dovrebbero essere quanto più liberi e integrati ed estesi, e mercati finanziari, che non dovrebbero nemmeno esistere. Nella misura in cui storicamente il capitalismo è un sistema economico connotato proprio dall’esistenza dei mercati finanziari, si può, e forse si deve, prendere le distanze dal capitalismo per andare in direzione di un mercato davvero libero. Lo ha detto e scritto un amico in Bankitalia, non vedo perché non si debba poter dire qui.
Infatti, che cosa impedisce di pensare un’alternativa, un nuovo patto fra stato, mercato e società? Per dirla con Keynes: il feticcio della liquidità. Quello che Keynes, nel capitolo 12 della Teoria Generale, individua come carattere distintivo dei mercati finanziari e che egli chiama esplicitamente un “feticcio antisociale”. Su questo feticcio si è costruito un patto fra stato e mercato ai danni della società.
Ma che cos’è la liquidità? Si tratta di un giano bifronte. La liquidità è il carattere del credito, nella misura in cui può essere comprato e venduto su un mercato, il mercato finanziario, come quel luogo dove si investe senza responsabilità e tutti ci guadagnano (luogo di una libertà adolescenziale, come forse direbbe Magatti). Ma la liquidità è anche il carattere della moneta, nella misura in cui può essere trattenuta indefinitamente, come forma suprema della ricchezza, come rifugio sicuro in tempi di incertezza, quando non ci si può più fidare di nessuno.
Su questo duplice assunto si è costruito un sistema perpetuamente oscillante fra l’illusione della comunione e il rifugio del solipsismo. Finché ha funzionato, ha dato l’illusione di un paradiso artificiale fatto non solo di benessere materiale ma anche di uguaglianza. Quando è entrato in crisi, ha precipitato tutti in un inferno in cui quanto più ciascuno pensa a salvarsi tanto più collettivamente ci si perde.
Ma vi è una costante, aldilà di queste oscillazioni: che questo sistema ha trasformato tutti in rentiers. La rendita ha compresso salari e profitti. L’irrigidimento del capitale ha richiesto la flessibilizzione del lavoro. Da qui il carattere odioso della nuova ricchezza, perché si tratta di una ricchezza immeritata. Da qui anche la disuguaglianza crescente nella distribuzione del reddito. E la crescita ipertrofica dell’indebitamente per compensare la mancanza di reddito… Un circolo vizioso.
La finanza, dunque, ha usurpato lo spazio della politica perché il mercato ha occupato le spazio della finanza. Il liberalismo ha tradizionalmente difeso il mercato dalla politica, la tradizione democratica ha difeso la politica dal mercato. Nessuno si è preoccupato di difendere la finanza dal mercato. Mentre la finanza, propriamente intesa, è sociale: ha a che fare con la relazione fra debitore e creditore.
Porre limiti al mercato è compito politico. Dove deve passare quel limite? Prima del credito. Il credito non è merce ma relazione. Se il mercato si estende al credito, non c’è più argine. O si comincia a sottrarre il credito al mercato, oppure la regolazione o democratizzazione della globalizzazione rischia di essere velleitaria.
Che cosa significa porre limiti al mercato del credito? Alcune misure sono già oggetto di considerazione e attendono solo di essere attuate e di essere comprese in una visione unitaria e organica: limitazioni al mercato del credito possono prendere la forma di tasse sulle transazioni finanziarie, aumento delle imposte sulle rendite finanziarie, imposta sulle successioni e sui patrimoni, distinzione fra banche commerciali e banche di investimento, limitazioni alla contabilità al fari value, rivalutazione della tradizione cooperativa.
Tuttavia, non bisogna pensare soltanto di limitare la finanza di mercato. È possibile e auspicabile anche inventare forme nuove. Pensare un’alternativa significa pensare una finanza alternativa. Passare da una finanza di mercato a una finanza per il mercato.
La finanza ha da assolvere due compiti essenziali: finanziare gli scambi e gli investimenti. Nessuno dei due richiede il mercato del credito o il prestito a interesse. Il finanziamento degli scambi può avvenire attraverso un sistema di compensazione (improntato non alla crescita, ma all’equilibrio). Il finanziamento degli investimenti e dell’innovazione può avvenire attraverso forme di compartecipazione alle perdite e ai profitti (all’interno dei quali la crescita non è obbligata, ma semplicemente possibile). Entrambi questi principi consentono di tenere la finanza strettamente legata all’attività economica reale. Entrambi questi questi principi costituiscono una forma di finanza cooperativa.
Delimitare e riformare la finanza sono compiti politici urgenti. La posta in gioco non è solo la salute del sistema economico, ma la ricostituzione e la preservazione di spazi politici.
La riforma della finanza si può e si deve fare su tutti i livelli: internazionale, europeo, nazionale e locale. La riforma della finanza può partire dal basso, secondo un principio di sussidiarietà e nello spirito della nostra migliore tradizione cooperativa. Assieme a Massimo Amato, stiamo lavorando alla messa in opera di un sistema di moneta e finanza locale in Francia, a Nantes, una città governata da vent’anni dal Partito Socialista.
Si tratta di un’iniziativa locale, ma di respiro europeo. Sarebbe bello dall’Italia partisse l’ispirazione per una riforma della finanza in tutta Europa. Innanzi tutto, perché l’Europa ha bisogno di trovare essa stessa nuove forme di cooperazione, in particolare attraverso una camera di compensazione per riassorbire gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci anni – magari sul modello dell’Unione Europea dei Pagamenti, che ha consentito la ripresa postbellica e i miracoli economici italiano e tedesco negli anni cinquanta. E poi perché sperimenti locali si stanno cominciando a fare in tutta Europa, non contro l’euro, ma anzi per rafforzare l’unione monetaria. Infine, perché l’Italia, che ha riacquistato una voce in Europa, si facesse promotrice di un rinnovamento, in particolare della finanza, come è accaduto nei momenti più felici della sua storia.
Luca Fantacci
[Il presente testo è servito da traccia per un intervento al seminario “Il mondo dopo la destra”, organizzato dal Centro Studi del PD a Roma, il 17 febbraio 2012. Il video di questo, come degli altri interventi, è disponibile su youdem.tv]