Ho visto finalmente The Artist, superando con qualche mese di ritardo l’istintivo rigetto per i film troppo celebrati e premiati, e ho trovato del tutto legittimi gli Oscar per la Miglior Regia e per il Miglior Attore Protagonista assegnati rispettivamente a Michel Hazanavicius e Jean Dujardin. Non altrettanto, invece, quello per il Miglior Film, perché un film muto nel 2011 resta pur sempre un virtuosismo, una macchina autoreferenziale costruita per attirare l’attenzione alla quale il massimo premio dovrebbe essere vietato quasi per regolamento.
È come se l’oro ai Mondiali di danza fosse assegnato a un’atleta che balla con le mani legate dietro la schiena, o se il Premio Campiello andasse a un romanzo scritto senza parole che contengano la A. Credo che l’eccellenza assoluta vada riconosciuta a chi usa nel miglior modo e nella miglior misura possibili l’insieme degli strumenti a propria disposizione e non a chi vuol dimostrare che può fare a meno di, altrimenti si finisce per premiare il come e non il cosa. Soprattutto se, poi, a meno di non nei fa davvero, visto che il film pullula di cartelli di dialogo (le battute che appaiono scritte su sfondo nero dopo aver visto l’attore muovere la bocca, come nei vecchi film muti, appunto).
La verità è che ci sono decine di film contemporanei molto meno parlati di The Artist (gran parte della filmografia di Kim Ki-duk, per esempio) che non vanno in giro a dire di essere film muti. E allora perché mi si è voluto negare il piacere di ascoltare l’interpretazione vocale che Dujardin avrebbe dato delle sue battute, costringendomi a un’asettica lettura a schermo? La risposta retorica è quella di cui sopra: per farsi notare.
Certo, The Artist è una lezione: agli sceneggiatori di formazione televisiva che inondano i film di dialoghi superflui, e al pubblico che troppo spesso si dimentica di apprezzare e interpretare l’immagine, pigramente impegnato ad ascoltare i film come radiodrammi. Ma ci piace pensare di poter diventare spettatori consapevoli senza bisogno della maestra che ci lega la mano sinistra per insegnarci a scrivere con la destra.
Detto questo, ci sono diverse ragioni per cui The Artist si può considerare un grande film, o almeno un ottimo film: la composizione dell’immagine, la forza poetica di molte scene (memorabile quella in cui Bérénice Bejo si auto-abbraccia infilando la mano nella giacca di Dujardin appesa all’appendiabiti), il perturbante trattato sull’orgoglio e sul narcisismo che emerge dalla vicenda del protagonista. Ma l’avrei apprezzato in modo più sereno se il film non mi si fosse presentato reggendo un cartello su cui era scritto: “Sono un figo”.