Ci sono molti modi per leggere la lettera della moglie di Antonio Simone, Carla Vites, pubblicata oggi dal Corriere della Sera. È sicuramente una lettera piena di rabbia e livore. Una lettera in cui il ritratto d’interno di una vita (quella di Formigoni) assume toni pettegoli e gratuiti, tutti da dimostrare: e in ogni caso, a larghi tratti, penalmente irrilevanti anche quando dimostrati con certezza. Non è un reato il narcisismo di Formigoni, non sono un reato gli eventuali topless delle figlie di Daccò sugli Yacht frequentati dal Celeste, non sono un reato neanche le eventuali (probabili) bugie sul livello di intimità tra Formigoni e Daccò. Non sono un reato ovviamente fino a prova contraria, e fino a quando non si dimostri che tali intimità, confidenze, vacanze e cene di alto bordo – pagate da Daccò, lascia intendere la Vites – sono stati decisivi nell’ottenere appalti e lavori dal “sistema Regione”. Forse sono solo peccati, che una ciellina militante rinfaccia al commilitone: ma non ha torto chi dice che la moglie di Simone, prima di scagliare le pietre e chiedere autocritica al suo movimento citando Benedetto XVI, dovrebbe iniziare dal livello più intimo e vicino, quello che la situazione suggerirebbe.
C’è però un altro modo di leggere quella lettera, che cambia radicalmente la prospettiva. È quello di una lunga amicizia tradita, rivendicata da una moglie che – di Antonio Simone – non era più la compagna da anni. Così, almeno, viene ritratto il rapporto tra Antonio Simone e Roberto Formigoni dalla moglie del primo. E così, dopo tutto, sembra emergere anche il rapporto tra Formigoni e Daccò. Quello tra amici di lunga data, che Formigoni derubrica a poco più di una semplice conoscenza. È reato? Naturalmente no. È peccato? Forse, per chi ci crede, ma qui poco conta. È politicamente rilevante, e dice qualcosa del leader? Questo, probabilmente, sì. Perchè le persone con cui hai scritto una storia politica e umana non si scaricano in “quattro e quattr’otto”. E perchè la parola “amicizia”, tra ciellini, è sempre stao il cemento dichiarato di una comunità umana, prima che politica. Una comunità di gente vera, al di là di ogni pregiudizio, che ha condiviso valori, lotte, una storia, interessi e passioni. Eppure – sembra dire la Vites – tutto è saltato in un rapido giro di dichiarazioni, e “amicizia” è diventata una parola di cui vergognarsi e da rinnegare. Una brutta pagina, oggettivamente. Di quelle che non hanno mai macchiato la storia politica e umana di Silvio Berlusconi, che gli amici non li ha mai scaricati nemmeno se si chiamavano Previti o Dell’Utri. E di questi, al fondatore del centrodestra italiano, va dato atto.