Il rapporto di lavoro è durato due mesi, e risale addirittura al millennio scorso. La storia riportata dal Sole24ore a pagina 21 è di quelle che fanno scuotere la testa. Nel 1999 un lavoratore va a lavorare con un contratto a termine alle Poste. Il contratto dura due mesi, finisce, lui prende il Tfr e non manifesta problemi rispetto alla fine di un contratto che – per l’appunto – era a termine. Insomma, non fa immediato ricorso, non si presenta più al lavoro, accetta la liquidazione.
Poi, però, qualcuno lo consiglia di ricorrere a un processo. Qualche legale, con ogni probabilità, gli speiga che in base a un’ottantina di leggi, a duecento circolari, e a 14 sentenze diverse, quella clausola di tempo determinato, per una serie di ragione, era apposta illegittimamente. Sei anni dopo – ripeto: 6 – fa ricorso. Va dai giudici di Salerno, che ammettono che sì la clausola era irregolare, ma la sua irregolarità era stata sanata per “l’intervenuta acquiescenza” di chi non era più andato al lavoro e aveva preso la liquidazione senza riserve.
Sembra finita, e invece no. Perchè giusto ieri la Cassazione ci spiega che quelli tenuti dal lavoratore non sono comportamenti in alcun modo “concludenti”: non indicano cioè la sua propria acquiescenza. E come mai ha aspettato sei anni per fare ricorso (per un contratto di due mesi)? Non è importante, per la Cassazione, perchè quella non è causa di annullabilità, ma di nullità “imprescrittibile”. Cioè, il ricorso vale sempre e per sempre. E quindi? Procedimento rispedito in Corte d’Apello, con tanti saluti alla certezza del diritto.
In settimane di discussioni e propaganada sul nostro sistema produttivo e sul mercato del lavoro, mi chiedo se non siano in realtà storie come queste a indicare la strada delle riforme da fare. Voi investireste in un paese in cui il terzo grado di giudizio ribalta il secondo e ogni buon senso in base a interpretazioni che erano stato opposte appena prima? Voi no. E neanche gli investitori stranieri.