Post SilvioGattuso e gli altri: quando il calcio insegna il senso del limite a politici e manager

Lo so, il “calcio come metafora” è un genere davvero molto battuto. Diciamolo pure, abusato. Eppure, chi abbia amato davvero il calcio, chi anche per solo brevi periodi in età infantile o nell’adol...

Lo so, il “calcio come metafora” è un genere davvero molto battuto. Diciamolo pure, abusato. Eppure, chi abbia amato davvero il calcio, chi anche per solo brevi periodi in età infantile o nell’adolescenza inoltrata ne abbia fatto il centro delle proprie passioni, sa che il calcio è davvero una grande metafora. Il campo, lo spogliatoio e il gruppo, i rapporti di forza, gli avversari, i compagni, l’arbitro, la vittoria, la batosta, l’adrenalina, l’ambizione, la tattica, la tenacia. Sono solo alcuni degli ingredienti che, con poca fatica, si ritorvano sempre nella vita, anche quando si svolge lontanissima dai campi da calcio.

Ci sono, però, delle cose che distanziano quel gioco bellissimo, oggetto di passioni e di tifo, dalla vita. Quel limite fisico che impone a un certo punto di dire basta è uno sbarramento che non sarà mai superabile, nemmeno con tutta la medicina e la fisioterapia del mondo.

Capita così, in un pomeriggio di maggio, che allo stadio di San Siro come al Delle Alpi di Torino, due grandissimi campioni di questi decenni – Pippo Inzaghi e Alex Del Piero – salutino le squadre di cui sono stati leader, fari, punti di riferimenti. Lo fanno da protagonisti, segnando, e probabilmente avendo anche qualcosa da ridire a chi ha smesso di credere in loro quando ancora potevano dare tanto. Ma lo fanno perchè sanno che a quasi quarant’anni l’ora di smettere è arrivata, e il resto sono dettagli. 

Capita – ed è sempre oggi – che totem del calcio italiano e internazionale (Nesta, Gattuso, con ogni probabilità anche Zambrotta e Seedorf) si debbano fare da parte, uscendo dal cuore di una squadra di cui hanno fatto la storia. Senza poter rivendicare il passato, perchè nello sport contano solo il presente e il futuro, e la meritocrazia è chiara quanto lo scopo del gioco.

Nel nostro paese di diritti acquisiti e di meriti che non devono mai essere commisurati al presente, dal calcio viene una volta tanto una lezione. Anche chi ha vinto tutto da protagonista, un bel giorno, si commuove, piange, ringrazia per l’affetto e la festa e va a combattere con la nostalgia e a godersi i suoi soldi in disparte. Lasciando nel cuore dell’agone altri, che vanno più veloce e hanno ancora tutto da dimostrare. 

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