In certi sabati, uno come me, sente di volere particolarmente bene alla sua città, Milano. Luminosa, tipida, sorridente: soprattutto, città delle opportunità per tanti, ancora, come una vera città europea. Poi, arrivando verso sera a sfogliare le pagine del dorso milanese del Corriere della Sera, si accorge che ci sono cose in grado di cambiare un po’ l’umore verso certi pezzi di questa città: ad esempio gli “uomini forti” (ultimamente un po’ meno, in verità) che parlano con esplicita (va dato atto) acrimonia di certi cambiamenti in atto. Che li vedono un po’ meno al centro della scena, dopo epoche di grande potere.
Incontriamo dunque Francesco Micheli a pagina 6 del Corriere Milano. Finanziere, ricchissimo, e molto potenete da tempo immemore, diventa ancora più ricco grazie alla partita della vita: Fastweb, quell’azienda che al primo giorno di quotazione per i “mercati” valeva più di Fiat. Alla base della stessa, c’erano le fortune accumulate dai capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, mentre prima scalava e poi vendeva (indebitatissima) Telecom, di cui l’altra – Fastweb – sarebbe stato poi il principale concorrente. Anche quella volta, il debito e il piombo nelle ali furono di tutti, il guadagno di pochissimi che investirono poco, trovando con abilità un varco nella politica e nei salotti.
Va beh, a monte. A monte anche perchè Micheli, ritratto sul Corriere di Milano ma già riprendendo Prima Comunicazione, ovviamente non parla di tutto questo. Anzi, per discrezione non si fa menzione di nulla. Micheli, appena uscito da quel cda “rinnovato senza di lui”, parla solo della Scala. Millanta crediti, come l’arrivo di Barenboim del quale si attribuisce ogni opera e azione decisiva (mentre fonti non meno informate di lui danno – per quel che conta – altre versioni). Attacca il “giovane collaboratore” del ministro Ornaghi, Alessandro Tuzzi, nominato in Cda: cose “scandalose e offensive” – parla da indidgnado, Micheli – per un governo guidato da un uomo “della caratura di Monti”. Cose inadeguate, per un Cda con nomi come “Pisapia, Podestà, Bazoli, Poli, Scaroni, Tagliabue, Ermolli”.
Peccato. Micheli avrebbe potuto uscire alla grande da questa storia della Scala. Per rafforzare una volta di più il suo clichè di finanziere mecenate, colto, musicofilo, che apre i salotti agli intellettuali. Avrebbe potuto dire: “Sapete una cosa? La Scala non mi ha più voluto ed è giusto così. Cosa ci fanno ancora lì I Bazoli, I Poli, gli Scaroni, gli Ermolli? Quando ci decidiamo a lasciare la Scala a chi sa far funzionare cultura e brand, in un mondo così diverso dal nostro?”. E vabbè, è andata così. Speriamo che Micheli non si crucci oltre. La Scala ce la farà, oppure no: come Milano e il capitalismo mondiale. Non sprechi fatica per farci pensare che con lui ancora in pista sarebbe stato tutto diverso: non gli crederemmo.