Anni fa girava fra i colleghi americani la storia secondo cui il Padrino sarebbe stato prodotto con i capitali di Cosa Nostra che voleva in quel modo legittimarsi nel momento in cui arrivavano i ben più aggressivi cartelli sudamericani. E in effetti il vecchio Don Corleone impersonato da Marlon Brando viene ritratto nel suo rifiuto di vendere eroina. Quando poi ho iniziato a scrivere per un settimanale Usa, all’inizio di storie di mafie ne facevamo parecchie ed andavano benissimo. Poi un giorno il capo mi disse che ultimamente non tiravano più: «con il grande successo dei Sopranos (la serie tv, ndr), la gente pensa che il mafioso sia uno come il tuo vicino di casa, coi suoi stessi problemi, solo che ogni tanto sbrocca e prende a mazzate qualcuno, vediamo che non c’è più un interesse così forte». In qualche modo era avvenuta una legittimazione del fenomeno. Che non sigifica forse creare mafiosi: è vero che che mai nessuno ha ucciso il proprio padre dopo aver assistito ad una recita dell’Edipo. Ma è anche vero che, anche se non si possono fare semplici legami causa-effetto, un impatto sull’anima la rappresentazione ce l’ha. Impatto che, nel caso della tragedia può essere quello complesso della catarsi ma che, in altre rappresentazioni, può anche essere quello più semplice dell’esaltazione di massa o appunto quello più delicato della legittimazione perché, comprendere qualcuno o qualcosa, talvolta diventa accettarlo.
Ecco, proprio il dibattito sulla vera o presunta legittimazione televisivo-cinematografica della mafia mi è tornato in mente qualche giorno fa entrando in un piccolo locale italiano a Hall in Tirol, una delle più grandi cittadine medievali del nord dell’Austria, a dieci minuti di macchina da Innsbruck. Desideroso di un cappuccino ben fatto, ho visto questo localino che si presentava bene, con fuori tanti fiori, e io, che di solito all’estero non metto mai piede in ristoranti italiani, questa volta mi sono fatto convincere.
Il locale italiano visto da fuori
Entrato nel locale, la prima cosa che colpiva era che fosse uno dei pochi posti dove la gente fumasse al chiuso. Ma tant’è, ormai ero lì e trovare un altro cappuccino ben fatto in un paesino così piccolo sarebbe stato arduo. Solo che quando mi sono voltato verso il bancone mi sono trovato davanti ad una cartello con una scritta messa lì con indiferrenza, come fosse una parola qualsiasi: «Mafia». Stavo per chiederne ragione all’inserviente ma il mio tedesco dopo anni di disuso si è ridotto a poca cosa e, visto che non parlava altre lingue a me conosciute, ho scattato la seconda foto.
Il cartello con la scritta «Mafia» dietro al bancone
Mentre bevevo il cappuccino, notando fra l’altro che non era per niente all’altezza delle mie aspettative, è comparso dal nulla dietro al bancone un uomo che sembrava proprio una caricatura di James Gandolfini dei Sopranos. Grosso, grasso, corpulento, parlava al telefono in un dialetto del Sud. Dalla camicia nera sbottonata fino a metà stomaco, oltre a un gran quantità di peli, usciva un collanone d’oro, ai polsi e sulle dita, altri monili dorati. La sua apparizione è stata troppo veloce per riuscire a fargli una foto, è infatti scomparso subito. Il locale sembra quindi essere davvero di un italiano e, non solo visto il look, dovrebbe conoscere il significato della parola: dalla sicumera con cui si muove non sembra un dipendente. Noto che, proprio sopra la scritta “Mafia”, c’è anche una pistola nera, che sembra però essere un giocattolo. Insomma, se a vantarsi di quella parola fosse stato solo un gruppo di stranieri vagamente idioti o puramente inconsapevoli, sarebbe stata un’altra cosa.
Ecco, anche se può quindi esserci una certa legittimazione mafiosa prodotta da film e serie Tv, non credo si possano paragonare quel cartello e quella pistola a quelli che girano con le magliette con la faccia di Don Corleone, perché “Il Padrino” è un film e in genere, chi lo fa, vuole solo esprimere la propria ammirazione per quello che è per molti aspetti un capolavoro. In questo caso è diverso. Qui c’è solo quella parola, usata così, come se si mettesse in mostra una Ferrari o una foto della Scala di Milano. Come possa essere un vanto o, peggio, vuota. Sarà forse questo un caso di ipersensibilità, non sarà questo l’unico locale italiano al mondo a giocare ambiguamente col termine, ma veniva da pensare a Bergson quando scriveva: “ciò di cui non riesco a ridere è quello per cui vale la pena vivere”. In questo caso, si può aggiungere, “è ciò contro cui vale la pena lottare”.
James Gandolfini