È bello questo articolo di Massimiliano Gallo (http://www.linkiesta.it/alex-schwazer-il-celestino-v-dell-atletica), che pubblica il video dell’intervista ad Alex Schwazer con il preciso intento di dimostrare che questo è un uomo. Ecco l’umanità che si palesa in quei cinquantuno minuti in cui un ragazzo racconta la fatica del dover essere un campione perché tutti vogliono così.
Anche lui lo vuole, per il fatto che o è un campione o non è niente, o vince o incontra una voce dentro che gli dice “Tu non vali niente”. Ecco perché non ha mai smesso, perché quella è davvero una voce che non si può sentire, che rende tristi, molto; o la si prende un po’ in giro, ad un certo punto (e per questo serve l’autoironia, che è una grande conquista evolutiva nel percorso di un essere umano), o se ne diventa servi. E questa è comunque una scelta, per quanto insondabile. È il soggetto che dice sì ad una vita in prigione, fino ad ammazzarsi di un allenamento che gli porta via l’energia e il tempo migliore, e senza essere sostenuto da un desiderio, da un amore, o nel caso da un odio, che è pur sempre una passione.
O campione o coglione, Schwazer è molto preciso al riguardo. È il dramma di chi è incollato ad un’etichetta supponendo che questa sintetizzi un’identità, una persona; che non ci siano altre parole per dirsi sul versante dell’essere, se non un misero aut-aut e una costante oscillazione dalla gloria all’infamia.
Con la testa china questo ragazzo accetta di essere determinato da chi fa di lui il proprio orgoglio, o più in generale da chi suppone di sapere che cosa sia meglio per lui (sono quelli “in buona fede”, spesso quelli che dispensano consigli). Il gioco tiene fino ad un certo punto in cui la fatica diventa troppa, insopportabile, ma una via d’uscita non è possibile attraverso la parola, fosse anche un semplice “No”. Alex ci prova in una forma estrema, pericolosa, e si procura una siringa. Gli riesce più semplice sopportare il calvario della menzogna e del dolore fisico e psicologico, che non alzare lo sguardo per assumersi la responsabilità del proprio desiderio nella sua verità. Cioè che ha sempre voluto vincere – e disperatamente – perché l’alternativa sarebbe stata precipitare in un baratro depressivo, quello del sentirsi un nonnulla; ma non lo ha mai desiderato, perché quando marcia lui è altrove.
Non sa dove, ancora, ed è questa la vera fatica: trovare una destinazione che sia la propria e non quella di un altro. Ma è giovane e in fondo ha appena cominciato a guardarsi intorno. Con un po’ di coraggio avrà modo di apprezzare la complessità del linguaggio e delle sue parole, che sono molte, e belle, e che non si riducono certo a “campione” o “coglione”.