Altra FinanzaIl problema non sono le Cayman ma il pensiero unico in finanza

Le recenti polemiche sul ruolo della finanza, e certi distinguo non sufficientemente precisi (diciamo pure un poco grossolani) con cui si è creduto poterle di chiudere, mi inducono a fare qualche r...

Le recenti polemiche sul ruolo della finanza, e certi distinguo non sufficientemente precisi (diciamo pure un poco grossolani) con cui si è creduto poterle di chiudere, mi inducono a fare qualche riflessione. Non tanto sulla caratura morale dei personaggi oggetto e soggetto di polemiche nel campo delle primarie del Pd, quanto sul peso logico degli argomenti utilizzati.

Partiamo dalle Cayman. E chiediamoci perché qualcuno per le Cayman invece ci parte. La risposta è semplice: perché sono paradisi fiscali. Si è tuonato contro di essi nel 2007-2008 (lo fece Sarkozy in una conferenza stampa a fianco di Merkel): ma son stati tuoni senza fulmini. E tuttavia la cosa è semplice: i paradisi fiscali non sono altro che zone di impunità: come se si dicesse che è severamente vietato picchiare donne e bambini, salvo il giovedì dalle 12.30 alle 13.45 in un appartamentino in periferia. 

I paradisi fiscali sono insensati non solo dal punto di vista del senso della giustizia, ma anche di quello in una logica sana di mercato. Solo che negli ultimi decenni la “logica” della “competizione” ha lavorato in senso contrario, facendo dei mercati finanziari gli arbitri supremi della competizione fra sistemi economici e giuridici, e dunque di ogni sistema economico una replica potenziale di quelle isolette. Per anni, infatti, si è suggerito che le distensioni delle maglie regolamentari, per esempio in tema di movimenti di capitali o di flessibilizzazione del lavoro, avrebbero reso il paese che le attuava “più attraente” per gli “investitori” internazionali. Le si è chiamate politiche strutturali e le si è imposte al “terzo mondo”. Ora per rigurgito, ce le ritroviamo in casa e fatalisticamente le accettiamo come la sola benché amara medicina per uscire dalla crisi.

Ergo, se non si aboliscono le Cayman benché siano zone di impunità, non è necessariamente perché si è “cattivi”o collusi con finanzieri loschi, ma perché si crede ancora a una “logica” della “competizione”che inizia non solo a far acqua, ma anche a far male . Finché ci si crede, tuttavia, le Cayman non si aboliscono. E finché non si aboliscono, tuonarci contro rischia di diventare un puro esercizio retorico. Per contro andarci, alle Cayman, rischia di essere qualcosa di cui non ci si deve affatto vergognare, a patto che poi si paghino, facendolo sussiegosamente notare, le tasse in Inghilterra.

Sussiego e ipocrisia a parte, c’è altro di cui vergognarsi, anche se alle Cayman non ci si va. Per esempio del fatto che negli ultimi trent’anni, in nome di una malintesa “efficienza economica”, che i mercati finanziari ancor più “efficienti” prontamente premierebbero facendo affluire investimenti nei paesi “virtuosi”, tutto si è messo in competizione, tranne che i modelli di finanza essi stessi. Quando parliamo di finanza, nel migliore dei casi non sappiamo, e nel peggiore facciamo finta di non sapere, che di forme di finanza non ne esiste solo una, quella dominante dei mercati finanziari, ma anche un’altra, che fa a meno di fare mercato della moneta.

Forti di questa identificazione fra una funzione, quella finanziaria, e la forma dominante degli strumenti per svolgerla (i mercati finanziari), alcuni di noi discettano sulla presunta neutralità della finanza “in se stessa”, argomentando che la sua bontà o non bontà dipenda da come la si usa. È un vecchio argomento, invero un po’ pretesco (senza offesa per nessuno…): lo strumento è neutro, è l’intenzione che ne fa qualcosa di buono o cattivo. Per esempio un coltello: buono se ci taglio il pane, cattivo se ci taglio la gola a qualcuno per avere il suo pane. In verità l’argomento dipende dal realismo delle alternative. Se si volesse far passare l’idea che un cannone è in sé neutro, ma è cattivo se ci sparo e buono se lo utilizzo come stuzzicadenti, forse non si sarebbe altrettanto creduti quanto lo si è quando si discetta di finanza.

Un cannone resta un cannone. I mercati finanziari restano i mercati finanziari. Ma i mercati finanziari non sono affatto tutta la finanza che è possibile a auspicabile avere. Dovrebbero rendersene conto tanto chi trova “neutro” farsi organizzare eventi da finanzieri che operano con la logica dei mercati finanziari, quanto chi si indigna per il fatto che il finanziare in questione opera anche alle Cayman, benché paghi onorevolmente tutte le sue tasse in Gran Bretagna.

Se davvero vogliamo che la finanza sia ciò che deve essere, ossia uno strumento al servizio dell’economia reale, dobbiamo capire bene quale sia il ruolo della politica. I mercati finanziari sono gli unici mercati che non esistono senza la politica. E la politica a sua volta, pur rendendoli possibili in quanto regolatore, rischia, in quanto cliente, di dover soccombere alla logica di rendita che essa stessa sdogana.

Se davvero vogliamo che la finanza sia ciò che deve essere, ossia una strumento al servizio dell’economia reale, non possiamo accontentarci di sostenere che sia “la politica”, dando ogni tanto una “regolata” alla finanza, a farla essere “buona”. Se davvero vogliamo che la finanza sia ciò che deve essere, ossia una strumento al servizio dell’economia reale, il nostro compito politico è favorire la costruzione di forme di finanza che non dipendano dalla logica della rendita e della liquidità, ossia dai mercati finanziari.

Sarebbe bene che non fossero solo dei professori a parlarne nei loro libri, ma anche uomini che si vogliono politici, ossia al servizio di una comunità un po’ più ampia di quella finanziaria.
massimo amato

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