Ora sappiamo che qualcuno ha concretamente fermato, seppur temporaneamente, uno dei tanti declini del Paese. Quello della partecipazione alla vita politica. Perché Bersani, Renzi e gli altri candidati alle primarie sono riusciti nell’impresa di suscitare, in 3 milioni di italiani – equivalenti a poco meno di 1/5 dell’elettorato di centrosinistra – , il desiderio di portare fuori dalle logore ed autoreferenziali segrete stanze la scelta del prossimo candidato premier.
Questo ritorno in campo di un pezzo del popolo di centrosinistra è un bel segnale. Soprattutto se si considera che il vento dell’antipolitica non è mai spirato così forte nella storia repubblicana.
Però bisogna stare attenti a magnificare senza se e senza ma l’evento delle primarie. Perché nel confronto con l’unico precedente – quello delle primarie del 2005 – , il centrosinistra ha perso domenica 1 milione di partecipanti.
Una defezione che, in assenza dell’elemento di novità rappresentato da Renzi, avrebbe potuto essere ancora più rilevante.
Infatti alle consultazioni di coalizione che si si svolsero con regole simili a quelle di domenica e che incoronarono Romano Prodi candidato premier con 3,1 milioni di voti, parteciparono ben 4,3 milioni di elettori. Se questo dato viene decurtato dei voti raccolti dalla lista Di Pietro-Idv, non presente domenica, e riteniamo valida l’equivalenza di peso del voto post-democristiano – incarnato, stavolta da Tabacci e nel 2005 da Mastella – i votanti alla primarie del 2005 comparabili con quelli del 2012 sono 4,1 milioni. Dunque 1 milione in più rispetto alle primarie 2012.
Certo in 7 anni il contesto politico, così come quello sociale sono cambiati. Lo ha ricordato correttamente stamattina su Repubblica anche Ilvo Diamanti. Riferendosi in particolare al fatto che la sfiducia e disaffezione nei confronti dei partiti e più complessivamente della politica, nel 2005, non avevano raggiunto i livelli di guardia del nostro tempo.
Però bisogna anche considerare che gli stimoli potenziali alla partecipazione, domenica scorsa, sono stati decisamente maggiori di quelli del 2005. Perché queste primarie hanno avuto una competizione vera e non un solo candidato predestinato alla vittoria. Perché Renzi, Bersani e gli altri competitors hanno potuto disporre di mezzi di comunicazione inimmaginabili nel 2005, con cui hanno generato una imponente “potenza di fuoco”. E perché il Pd e Sel, in particolare, hanno messo a punto una macchina organizzativa decisamente più efficace di quella, in parte improvvisata, messa in campo nel 2005. Dunque è lecito chiedersi perché tutto ciò non abbia prodotto quell’effetto trascinamento, capace di portare al voto almeno tanti elettori quanti quelli del 2005.
Tra i molteplici motivi, ce n’è uno fondamentale. A queste primarie mancava la statura dei candidati. Nemmeno paragonabile a quella di Romano Prodi. Che, con la propria capacità di trasmettere in modo autorevole un’idea di progetto-paese, fu il vero trascinatore della corsa partecipativa alle primarie del 2005.
Non a caso Bersani e Renzi, incapaci come sono stati di dire dove ci vogliono portare, hanno giocato il tutto per tutto sulla tattica e sulla abilità all’utilizzo dei differenti mezzi di comunicazione disponibili. Diversificando i linguaggi a seconda del media usato e facendo leva su slogan preconfezionati o appunti programmatici, più che raccontando l’Italia che hanno in mente.
Cosicché domenica prossima non vincerà chi propone le ricette migliori, ma chi sarà comunicativamente più efficace. Con tutto ciò che ne potrà conseguire per il Paese. Perché ad essere abili comunicatori politici non si diventa certo statisti.