Altra FinanzaPerché le banche non danno credito alle imprese

L’articolo di Alessandro Plateroti apparso sul Sole 24 Ore del 30 Novembre 2012 intitolato “Ora il denaro costi meno alle imprese”, mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni.L’articolo parte most...

L’articolo di Alessandro Plateroti apparso sul Sole 24 Ore del 30 Novembre 2012 intitolato “Ora il denaro costi meno alle imprese”, mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni.

L’articolo parte mostrando due dati in merito alla crisi creditizia italiana:

(1) “In un anno, le aziende manifatturiere hanno subito un calo di 38 miliardi nella concessione di finanziamenti per investimenti e ristrutturazioni del debito”.
(2) “Le banche – causa la chiusura dei mercati dei capitali all’ingrosso – non sono riuscite a coprire i 200 miliardi di funding gap”

(1) Il dato descrive una contrazione della quantità di credito offerta. Dall’inizio della crisi (fine 2008) è la prima volta che l’irrigidimento delle condizioni di credito si manifesta sul lato della quantità; finora si era manifestato soprattutto attraverso i tassi praticati dagli intermediari (Banca d’Italia, 2012, p. 4). Inoltre l’analisi della domanda di credito (vedi Fig. 1) mostra come le imprese, contrariamente a quanto affermato da banchieri (cfr. lettera del direttore dell’Abi, Giovanni Sabatini, al Corriere della Sera del 5 ottobre 2012), continuino a domandare credito alle banche. E lo fanno essenzialmente per due motivi: finanziamento del capitale circolante e ristrutturazione del debito. In una situazione di crisi della domanda interna di beni e servizi, la maggioranza delle imprese italiane registra un calo delle vendite e degli utili e dunque delle fonti di autofinanziamento, necessitando così credito bancario per finanziare l’operatività del capitale circolante e i debiti pregressi. In tale situazione le imprese non domandano finanziamenti per investire e produrre di più. Il dato presentato nell’articolo va visto come una riduzione dell’offerta di credito che andrebbe a finanziare quelle attività che permetterebbero alle imprese di operare normalmente, o di sopravvivere, nel breve periodo; non quegli investimenti che le permetterebbero di prosperare nel medio –lungo periodo. Le banche dunque, vedendo che le imprese finanziano debito con altro debito senza intraprendere nuovi investimenti, temono della solvibilità delle imprese (infatti le sofferenze sono in crescita, cfr. Carlo Milani, lavoce.info 30 Novembre 2012) e riducono la quantità di credito offerta, così inficiando la solvibilità stessa delle imprese.
Se l’economia italiana è in frenata, la colpa non va probabilmente attribuita né alle imprese che non fanno investimenti, né alle banche che non danno credito, ma a quei fattori che contribuiscono a comprimere la domanda interna. Comunque, tali considerazioni non dovrebbero prescindere dal fatto che le condizioni applicate per l’erogazione di credito in Italia siano mediamente molto più rigide rispetto all’area-euro (cfr. Bank Lending Survey condotta dalle singole banche centrali europee, i cui dati sono riportati anche da Carlo Milani sulla voce.info); dal fatto cioè che le banche italiane hanno mediamente un contributo maggiore rispetto alle banche degli altri paesi-euro sulla stagnazione dell’economia.

Fig. 1 – La domanda di credito delle imprese (indici di diffusione: espansione (+), contrazione (-))

Fonte: Banca d’Italia (2012), La domanda e l’offerta di credito a livello territoriale, Luglio.

(2) Il cosiddetto funding gap strutturale del nostro sistema bancario (l’eccesso degli impieghi rispetto alla raccolta dalla clientela) che si colloca ormai stabilmente attorno ai 200 miliardi di euro, va finanziato in qualche modo, di necessità. Se dunque al sistema bancario riesce difficile farlo sul mercato internazionale all’ingrosso, deve esserci un modo alternativo.
In tempi normali, il finanziamento avveniva attraverso l’afflusso di capitali dall’estero, in particolare attraverso il mercato interbancario (all’ingrosso). Con l’insorgere della crisi, a partire indicativamente da luglio 2011, gli investitori esteri sono stati sempre meno propensi a finanziare le banche italiane (si è effettivamente registrato un “arresto improvviso” (sudden stop) dei capitali privati dall’estero), per gli svariati motivi che collegano il rischio associato alla solvibilità delle banche di un paese al paese stesso, e viceversa. Perciò le banche italiane hanno necessitato di un’altra fonte di finanziamento “esterno” a partire da luglio 2011. Tale finanziamento è arrivato dalla BCE. Non solo attraverso il noto ricorso alle operazioni di rifinanziamento di lungo periodo (LTRO) ma anche attraverso le operazioni di rifinanziamento principale (MRO) che avvengono essenzialmente su base settimanale. Infatti, a partire dall’ottobre 2008, le banche possono ottenere in ogni momento un qualsiasi ammontare di fondi dalla BCE al tasso d’interesse prevalente sulle operazioni di mercato aperto, con la sola condizione di avere a disposizione come garanzia assets adatti (fixed-rate tender with full allotment).
In particolare, la Fig. 2 mostra come prima di luglio 2011 i capitali privati (linea blu) erano affluiti abbondantemente in Italia, tanto da colmare interamente il fabbisogno finanziario dell’Italia (rappresentato dalla linea rossa: il conto finanziario dell’Italia). Dopo luglio 2011 invece, l’Italia ha registrato una repentina “fuga di capitali”. Tuttavia, gli inflows totali (linea rossa) hanno continuato a crescere stabilmente. L’evidente gap che si vede nella Fig. 2 dopo luglio 2011 è stato interamente colmato da afflussi di denaro provenienti dalla BCE attraverso operazioni di rifinanziamento (MRO, LTRO) fatte dalle banche italiane, da luglio 2012 con un tasso d’interesse pari a 0,75%, a Dicembre 2011 era all’1%. Ma come hanno utilizzato le banche italiane, i fondi resi disponibili dalla BCE?

Fig. 2 – “Arresto improvviso” dei capitali privati dall’estero, 2002-11 (€ Mln)

Fonte: Banca d’Italia, Balance of Payments

La Fig. 3 ci offre una risposta. Da quando si è registrato l’”arresto improvviso”, le banche hanno interamente usato i fondi ottenuti dalla BCE per trasferirli in altri paesi dell’area-euro (soprattutto nei paesi del Nord, quali Germania, Olanda, Lussemburgo), i quali hanno poi deciso di non ritrasferire il denaro così ottenuto all’economia italiana sottoforma di investimenti esteri, preferendo invece depositarli presso la BCE o presso lo stato sovrano acquisendone i titoli del tesoro. Solo in questo modo si spiega il sovrapporsi quasi perfetto delle due serie in Fig. 3 dopo luglio 2011. La BCE ha finanziato a tutti gli effetti quell’arresto improvviso. Lo deve fare per garantire ad ogni cittadino dell’Unione la possibilità di muovere a piacimento i propri capitali. Si tratta di una prerogativa essenziale della BCE per garantire il corretto funzionamento del sistema di pagamento all’interno dell’unione monetaria.

Fig. 3 – Gli outflows finanziati dalla BCE, 2002-11 (€ Mln)

Fonte: Banca d’Italia

Quindi, è vero quanto detto da Alessandro Profumo in un recente (4 ottobre) intervento all’università Bocconi: “Per le banche italiane il rapporto impieghi-depositi è sensibilmente superiore a 100 e se fino a qualche mese fa il 28% veniva coperto dagli investitori istituzionali che compravano passività dal sistema adesso, per il fatto che siamo un Paese periferico questi investitori non comprano più le passività a medio e lungo termine e quindi bisogna capire come chiudere il gap”. “Se tra due anni dovremo restituire i soldi alla Bce si rischia un vero e proprio credit crunch e la crescita ce la sogneremo per lungo tempo”.
Profumo teme che al momento del risarcimento del debito verso la BCE, il settore bancario italiano non avrà maturato sufficienti entrate, così da dover smantellare un po’ di attività per ottenere cash flow, con conseguente riduzione del credito concesso all’economia italiana. Eppure, se le operazioni di rifinanziamento dovessero avvenire ancora alle condizioni attuali, una banca alla scadenza potrebbe teoricamente finanziare il risarcimento del debito ricorrendo ulteriormente ad operazioni di rifinanziamento, all’unica condizione di avere degli assets validi come garanzia, come ad esempio i titoli del tesoro. Ed anzi, è probabilmente la possibilità di tale scenario che ha spinto le banche italiane ad utilizzare i fondi della BCE per acquistare all’estero assets “sicuri” dei paesi del Nord. In effetti, la possibilità di rifinanziarsi presso la BCE illimitatamente e ad un basso tasso d’interesse (oggi allo 0,75%) permette alle banche di impiegare profittevolmente il proprio capitale indipendentemente dai finanziamenti “rischiosi” al settore economico italiano. Ed è proprio quello che hanno fatto, come ho mostrato nella Fig. 3 e come mostrano i recenti monthly outlook dell’Abi: le banche italiane, a seguito dell’aumentato ricorso alla liquidità a basso prezzo della BCE, hanno aumentato considerevolmente i titoli in portafoglio, buona parte dei quali sono verso l’estero (cfr. Fig. 3). In altre parole, la liquidità della BCE, nel contribuire alla ricapitalizzazione necessaria delle banche in tempi di crisi, sta anche favorendo movimenti finanziari speculativi (si può anche ricorrere all’espressione carry trade). Così, le banche non trasferiscono la liquidità della BCE alle imprese italiane, le quali, d’altro canto, possono fare affidamento solo sulle banche per rifinanziarsi.
Pertanto, non è del tutto vero che le banche italiane sono strozzate dalla crisi del credito. La BCE le permette di rifinanziarsi facilmente in presenza di un malfunzionamento del mercato interbancario. Se le banche non danno credito alle imprese italiane non è perché non riescono a finanziarsi a costi sostenibili e competitivi (benché sia vero che le banche dei paesi del Nord si finanziano ad un tasso di interesse ancora inferiore sul mercato interbancario perché godono di un momento di eccesso di liquidità).
Non credo neppure che i recenti sviluppi sui tassi dei BTp, ai minimi da due anni, avranno un impatto significativo sulla ripresa del credito. Vediamo perché.
Abbiamo visto (cfr. Fig. 2) come ad un certo punto (da luglio 2011) gli investitori esteri hanno deciso di non rinnovare i prestiti fatti al settore bancario italiano, preferendo tenere i propri risparmi nelle proprie nazioni. In primo luogo, le banche hanno reagito vendendo parte dei propri assets liquidi, ovvero in gran parte i titoli del debito pubblico (TDB). Ma date le quantità in gioco, la vendita non poteva essere fatta senza forti spinte al ribasso dei prezzi, che oltre a pesare sui bilanci delle stesse banche, hanno conseguenze critiche per l’implementazione delle politica monetaria. Infatti:
– i TDB sono utilizzati come garanzia (collateral) nelle operazioni effettuate sul mercato interbancario. Se il loro valore cala, una banca avrà maggior difficoltà a finanziarsi su quel mercato e conseguentemente l’offerta di credito si ridurrà;
– il rendimento dei TDB è il valore di riferimento nel calcolare il tasso d’interesse sui prestiti ai debitori solventi; se il prezzo dei TDB si riduce (i.e. il rendimento dei TDB aumenta), il mercato del credito sarà colpito negativamente;
– c’è un effetto di bilancio: se il valore dei TDB si riduce, il bilancio del settore bancario italiano (che detiene in abbondanza TDB italiani) si riduce in volume perché parte delle proprie attività ha un valore inferiore; a parità di passività, il capitale netto del settore bancario si ridurrà. Ciò induce una riduzione del credito concesso per ottemperare ai criteri prudenziali.
La BCE ha voluto mitigare tali effetti perché compromettono la normale relazione tra i tassi fissati dalla banca centrale e quelli invece applicati all’economia reale. Perciò la BCE ha deciso di fornire liquidità illimitata in tutte le operazioni di rifinanziamento ad un tasso fisso a partire da ottobre 2008. A fronte dell’aumentato ricorso delle banche italiane alle operazioni di rifinanziamento presso la BCE, i rendimenti dei BTp italiani hanno registrato alcuni ribassi temporanei, soprattutto in seguito alle due operazioni di lungo periodo (LTRO) in dicembre 2011 e in febbraio 2012. Ma in seguito a quei ribassi l’irrigidimento del credito non è diminuito.
E’ per questo che, anche adesso che gli investitori esteri sembrano aver rinnovato la propria disposizione al finanziamento del debito pubblico italiano, temo che le condizioni di credito non miglioreranno. Per un semplice motivo. Gli investitori sono ora fiduciosi nello stato italiano soprattutto perché il governo Monti ha adottato una manovra fiscale che introduce nuove imposte per un valore di circa 4 punti di PIL (stima del vice-direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in una recente audizione parlamentare). Manovra fiscale che, secondo le recenti stime (conservative) di Giavazzi, Alesina e Favero, porterà una contrazione dell’economia intorno ai due punti e mezzo nei prossimi due anni, da aggiungere al -3% del 2012. E dunque, di fronte alla stima di uno scenario recessivo per l’economia italiana (chi potrebbe essere così spregiudicato da credere che una politica fiscale restrittiva è espansiva per l’economia?!), perché mai le banche dovrebbero essere spinte ad allentare le condizioni di credito? Per incrementare forse le proprie sofferenze?
E’ evidente che ci troviamo in un circolo vizioso. Le sole manovre che permettono di far ritornare i capitali dall’estero (le misure di austerity del governo Monti), che soli danno stabilità finanziaria all’Italia (in primo luogo sul mercato dei titoli del tesoro, ma poi anche sulla solidità generale del sistema bancario), sono anche le manovre che non permetteranno una ripresa dell’economia italiana a partire dai propri scambi domestici, e dunque non forniranno un incentivo valido alle banche per essere banche, cioè per dar credito all’economia.
Fa bene Plateroti ad utilizzare l’imperativo nel suo titolo: “ora il denaro costi meno alle imprese”! Ma finché ciò che dovrebbe essere socialmente imperativo rimane a discrezione di privati (le banche), l’imperativo (per quanto categorico) rimarrà non vincolante nella prassi.
Occorre spezzare il circolo vizioso che impedisce la ripresa degli investimenti e degli scambi. E ciò che impedisce la ripresa è il fatto che, per quanto denaro sia creato dalle banche centrali, tale denaro non circola nell’economia reale. Ciò che occorre non è più denaro, ma una moneta diversa.
E’ per questo motivo che guardo con positività alla recente iniziativa della Regione Lombardia che vuole creare nuove misure per finanziare il capitale circolante delle imprese, a partire dalla creazione di una moneta complementare fondata sul principio della compensazione e non su quello della liquidità. Un modo per evitare quella perversa situazione individuata da Plateroti: “quando si guarda alla crisi del credito come a una guerra per la liquidità, insomma, non ci sono né vincitori né vinti: a perdere è l’intero sistema economico su cui si regge il Paese”.

Andrea Papetti
MSc in Discipline Economiche e Sociali, Università Bocconi

03 dicembre 2012

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