Lahcen* era contento: finalmente, dopo quattro mesi, avrebbe dovuto presentarsi al colloquio per la richiesta di cittadinanza. Potete immaginare l’agitazione e il fermento che l’animavano, e che animavano anche sua moglie Martina*: sapevano che la domanda di cittadinanza era legata a un filo a quel colloquio. Martina aveva provato a chiedere ad amici e conoscenti le domande – che “terrorizzano” molti stranieri – che gli sarebbero state poste, ma senza esito.
Lahcen si presenta così al colloquio, all’ufficio immigrazione, in una stanza aperta, senza nessuna privacy, dove numerose persone vanno e vengono. Davanti a lui, una donna della polizia di stato. E il tutto, invece di un semplice colloquio per la cittadinanza, si trasforma in un vero e proprio interrogatorio. Lahcen ha con sé i documenti richiesti, tra cui suo Cud e quello della moglie. Gli viene chiesto come faccia a pagare l’affitto con un reddito così basso (Lahcen lavora come giardiniere) e come faccia a vivere, come se alludesse a guadagni illegali. Come se non si rendesse conto che la situazione di Lahcen non è poi così lontana da quella di molti giovani, non solo stranieri, che per arrivare a fine mese vivono con l’acqua alla gola e mille sacrifici. “Mio marito – spiega Martina – è arrivato clandestinamente in Italia. A Lampedusa, aveva fornito un nome falso, dicendo che era palestinese, per potere restare qui”. Lì gli era stato dato un foglio di via, ma Lahcen, invece di lasciare Lampedusa e tornare al suo Paese, si era diretto a Nord, lavorando in nero. Un giorno, fermato dalla polizia, dà i suoi dati veri, ma la polizia confonde nome e cognome: un errore che dopo il matrimonio, avvenuto nel 2009, gli costerà gli arresti domiciliari. Un errore che al colloquio viene rinfacciato a Lahcen: “Questa storia dei nomi non mi convince, lei non ha buona fede! – gli dice l’esaminatrice – Voi non capite che vi fanno le impronte e continuate a dare nomi falsi!”. Poi continua: “Sei sposato? Beh come tutti gli stranieri per avere i documenti! Perché vuoi la cittadinanza?”. Lahcen risponde che vorrebbe avere dei figli, quindi essere visto come pari a loro; in più avere la cittadinanza significa non essere considerato (almeno sulla carta) diverso e aiutarlo ad integrarsi maggiormente. Per tutta risposta, l’esaminatrice sbotta con un: “Questo lo può fare anche con la carta di soggiorno! Lei comunque non mi convince! Le dico che la sua domanda da parte mia non sarà accettata…i documenti partiranno negativi. Anche se prenderà un avvocato, non so se riuscirà ad averla”.
E così termina il primo colloquio. Per il prossimo passeranno altri anni…Potete immaginare l’amarezza e la rabbia di Lahcen, che dopo aver passato i pomeriggi a studiare la Costituzione italiana e qualche concetto di cultura generale sulla nostra penisola, si è ritrovato invece di fronte a lui una persona che l’ha giudicato per i suoi sbagli passati, ma soprattutto un’esaminatrice che è partita già con dei pregiudizi.
“Era lì per un motivo ben preciso – si sfoga Martina -, non per essere messo in croce per reati per i quali era già stato giudicato in altre sedi e aveva già pagato! Ha pagato 200 euro per la cittadinanza e questa invece di vedere che tipo di cultura si era fatto qui, se si era davvero integrato, si è messa ancora a giudicare il suo passato! In più magari dovremmo pagare l’avvocato e pure perdere?”.
Chissà quanti Lahcen ci sono in giro, quanti stranieri sono stati sottoposti a questi, spesso ridicoli, colloqui. Indubbiamente è giusto conoscere la lingua del Paese in cui si è, ma è altrettanto giusto valutare la cittadinanza in questo modo? Quasi umiliando la persona che si ha di fronte?
(*nomi di fantasia, per motivi di privacy)