La Costituzione americana sancisce il diritto alla ricerca della felicità. È questo un presupposto furbetto, che ben si presta ad essere strumentalizzato da una contemporaneità che non tollera il vuoto, e dunque lo riempie di oggetti. È tutto lì, a portata di mano, per farne uso e consumo al bisogno.
Il concetto della ricerca della felicità va così incontro a mille e una perversione, fino al mito per cui si è felici quando non si sente dolore, quando la vita è un mare calmo e senza increspature. Tutto il resto – l’amore, l’angoscia, il dubbio, lo stesso atto del pensare – è solo perturbazione, roba da mettersi la testa tra le mani e fuggire in preda al panico. Roba da urlo.
Per questo è fondamentale distrarsi, gingillarsi con cose leggere per non sentire il peso dell’esserci nel mondo, e autenticamente. L’importante è indossare sempre il proprio miglior sorriso, essere performanti, ben anestetizzati da cose che a volte sono gadget (il mero oggetto di consumo), oppure farmaci (come il Prozac al tre X due), oppure persone a cui aggrapparsi per avere un po’ di sollievo.
E per avere una parvenza di garanzia, per mettersi al riparo dal rischio dell’apertura all’altro che è e resta sconosciuto, per non incontrare l’incertezza del futuro, l’essere umano è disposto a sacrificare gran parte della propria felicità. Quella vera. Che non risiede nel non avere problemi, pensieri, preoccupazioni, quanto piuttosto nella piena accettazione del vuoto da cui si è abitati. Per smettere di averne paura – e dunque di volerlo riempire ad ogni costo – occorre realizzare che quel posto lasciato vuoto non è abisso depressivo, ma culla del desiderio, dell’amore, della creatività, del talento.
Dove tutto è pieno, dove un margine di solitudine non è tollerabile, lì non c’è spazio per quel movimento che è insito nella tensione verso qualcos’altro, o qualcun altro, e che è proprio del desiderare.
Del resto, per rubare le parole a Virginia Woolf, non si può scrivere se non si ha una stanza tutta per sé…