Note di BelfagorLinkiesta, la borghesia e la praticabilità della public company

Una grande tristezza. Questo è il sentimento lacerante che sale su su su sino all’acme di una sottile disperazione quando penso alla vicenda de Linkiesta che ha visto e vede protagonisti Jacopo Ton...

Una grande tristezza. Questo è il sentimento lacerante che sale su su su sino all’acme di una sottile disperazione quando penso alla vicenda de Linkiesta che ha visto e vede protagonisti Jacopo Tondelli, Jacopo Barigazzi e Lorenzo Dilena e tutti i giornalisti della redazione, tanto innovativi e tanto seriamente impegnati a dar dell’Italia un’immagine diversa da quello che essa è, con nobile e incosciente fiducia nelle sue classi “dirigenti”, ma invero dominanti.

Il problema è che i giovani giornalisti hanno sopravalutato coloro che dispongono del potere situazionale di fatto in questa avventura editoriale on line e off limits, ossia la proprietà vera e di controllo. Essi si sono illusi che il fior fiore della borghesia fosse in grado di costruire una public company a partire dalla inibizione degli istinti acquisitivi e proprietari. Il problema, però, è che non riusciamo, in questo Bel Paese, a far public companies di sorta, né nel mondo industriale né in quello finanziario: con stupefacente regolarità assistiamo da sempre al fallimento dei tentativi di costruire un sistema di allocazione capitalistica dei diritti di proprietà che sia diverso da quello sgangherato, ma che tanto piace ai borghesi political correct: quello padronale tout court.

Questi seri giornalisti son caduti in una trappola e ora ne pagano le conseguenze. Anche gli azionisti di minoranza come me, de Linkiesta, naturalmente, son caduti nella trappola. Per un difetto di eccesso di affettività io son caduto nella trappola, affettività nei confronti dei giovani giornalisti che ha spinto nell’angolo la mia diffidenza verso i borghesi proprietari all’italiana: quelli che studio tra antropologia ed economia e tra etnografia e storiografia, con un pizzico di ammirazione malcelata per l’infame Lombroso.

Ma ciò nonostante tengo il punto sul problema dell’antropologia positiva della persona e mi ostino a non credere in ciò che forse è la realtà: ossia che tutta questa vicenda sia il frutto di quell’atteggiamento tipico dello spirito borghese, à la Monti per intenderci, per cui colui o coloro che non riconosciamo (à la Honnet), disprezziamo (sempre à la Honnet).

Ma non andiamo troppo per il difficile: gli spiriti borghesi pour excellence s’ inquieterebbero troppo e una forte angoscia li assalirebbe spingendoli a compiere nuovi disastri morali. Rimane il fatto che questa vicenda ci insegna che – laddove le capacità idiosincratiche sono prevalenti, come accade nel lavoro giornalistico di qualità e non in quello mercenario – l’allocazione dei diritti di proprietà per via cooperativa è ben superiore per efficienza ed efficacia alla proprietà capitalistica. È la proprietà collettiva di piccoli gruppi che realizza, in fondo, l’ideale della trasparency, dell’accountability e della disclosure, obbligando alla imprenditorialità collettiva, associata, che è il miglior rimedio ai fallimenti della proprietà capitalistica del lavoro intellettuale. La speranza, amici cari, è una virtù bambina, ci ricorda sempre Peguy: cresciamo ancora con essa!

Giulio Sapelli