La fragilità dell’essere umano ha una propria estetica, è la ragione per cui esiste la musica, la poesia, la letteratura, il cinema. È la particolarità del rapporto di ciascuno con il proprio desiderio, che giunge a scardinare certezze precostituite, inamovibili, ad introdurre un principio di dubbio nel soliloquio dell’individuo che si ripete “Io sono questo, io sono quello”. È il monologo dell’Io che deve preservarsi dalla scoperta di essere anche altro, estraneo, sconosciuto a se stesso.
L’incontro con il desiderio avviene sempre nella forma dell’impasse, del disorientamento, dello scivolamento verso l’impossibilità – finalmente – del controllo assoluto su ogni aspetto della propria vita. E quando il soggetto si accorge, a seguito di questo incontro, che avere padronanza di tutto non si può – perché ad esempio comincia a fare proprio quelle cose che “non avrebbe mai fatto” – ne resta angosciato. Sorpresa! Non sei quel che credevi nel tuo delirio narcisistico di perfetta identità con te stesso, in ogni e qualsiasi circostanza.
Assumersi la responsabilità del proprio desiderio non è dunque cosa semplice, processo che scivola liscio e senza intoppi, perché l’Io monolitico oppone resistenza, vuole conservare la sua integrità come certezza d’essere, proteggersi dal rischio dell’apertura all’altro imprevedibile. Il movimento che è proprio della vita viene cristallizzato, immobilizzato perché nulla cambi; la natura morta, con la sua tonalità depressiva, è un prezzo che non pochi accettano di pagare pur di perpetuare uno stato di quiete assoluta.
Come quando si vorrebbe tanto fare qualcosa (scrivere, viaggiare, leggere, imparare…), ma si resta fermi, con il proprio alibi pronto che spesso è la mancanza di tempo, o qualche impedimento di ordine pratico. O come quando lui finalmente le chiede di sposarla dopo lunga attesa, ma il suo sì, inspiegabilmente, tarda ad arrivare. È lo spettacolo d’arte varia, cantava Paolo Conte, di un soggetto perso rispetto a ciò che desidera. In questo labirinto si trovano le fantasie che anticipano risposte ed eventi (“tanto non mi vuole”, “andrà male”, “non sarò in grado”), l’impossibilità di darsi e dare un tempo per capire, come anche il pensiero o tutto o niente, per cui l’esperienza soggettiva si esplica in una modalità on-off, non esiste una terza via.
Il desiderio, scrive Massimo Recalcati (Ritratti del desiderio, Cortina, Milano 2012), ha diverse facce. C’è ad esempio il desiderio dell’amore, che è sempre amore di un nome, di quel nome con la sua unicità che sfugge all’universale ed è per questo che non c’è nessun altro come il proprio amato. A questa forma del desiderio l’autore attribuisce un volto di donna, perché è proprio della donna chiedere all’altro un segno d’amore attraverso la parola. Una parola che sia segno del fatto che lei manca alla persona amata. Ed è proprio in questi termini che Lacan tratta l’amore: non sul versante del riempire l’altro (di cose, di cure, di attenzioni), ma su quello della mancanza. L’amore è saper donare all’altro ciò che non si ha. È sapergli dire che manca.