Pubblichiamo il secondo contributo a firma di Andrea Papetti di una serie dedicata alla crisi dell’eurozona e, in particolare, al significato del recente ritorno di capitali verso la periferia dell’eurozona.
Nel precedente post ho spiegato come l’esultanza per l’arrivo di “nuovi” captali nella periferia nell’eurozona vada stemperata riconoscendo i rischi che essi comportano. Non solo il rischio di ripristinare la normalità prima della crisi, evidentemente qualcosa di non auspicabile, ma anche il rischio di sostituire debito con altro debito nuovamente impagabile. Il post terminava con la seguente domanda, a cui ora darò risposta:
come si può evitare il meccanismo di sostituzione di debito con altro debito? Come si può rendere il debito pagabile?
La risposta è univoca. Il debito della Periferia risulterà pagabile solo quando essa avrà esportazioni nette positive, ossia quando sarà riuscita a riassorbire i deficit persistenti delle partire correnti. Cioè specularmente quando il Centro avrà riassorbito i surplus persistenti delle partite correnti. Si tratta di una necessità, oltre che di una verità contabile.
Per far questo, due sono le condizioni da soddisfare:
(i) [lato dell’offerta] i capitali esteri devono essere (almeno in parte) destinati alla produzione di beni e servizi commerciabili. E’ il messaggio principale del modello Giavazzi e Spaventa (2010). Il vincolo di bilancio intertemporale (che attiene all’economia di un paese!) richiede che al tempo t+1 le esportazioni nette di un paese siano sufficienti a bilanciare il debito contratto nel periodo precedente t;
(ii) [lato della domanda] i beni e servizi prodotti siano effettivamente commerciabili, cioè i loro prezzi siano relativamente competitivi.
La competitività
Partiamo dal punto (ii). Il punto (i) sarà discusso nel prossimo post. Se esistessero ancora le valute nazionali, basterebbe una svalutazione monetaria per rendere i propri prodotti più esportabili. C’è chi addirittura argomenta con dovizia di particolari (cfr. Alberto Bagnai, Il Tramonto dell’Euro) che il ripristino delle valute nazionali è il miglior modo per uscire dalla crisi e rincominciare un nuovo percorso d’integrazione europea. Secondo questa linea, la svalutazione monetaria, se ben controllata e concordata tra paesi, sarebbe la soluzione più veloce, efficace e indolore per riequilibrare i conti con l’estero nelle bilance dei pagamenti. Certo la possibilità di svalutare darebbe un po’ di fiato alla Periferia e nuovo slancio per la produzione. In fondo, la maggior parte delle misure di politica economica proposte alla Periferia ha per obiettivo la svalutazione del tasso di cambio reale, l’unica possibile in un’unione monetaria. Ma la svalutazione reale porta ad aggiustamenti con più lentezza, e soprattutto con più dolore rispetto a quella nominale. Infatti, se il Centro rimane del tutto passivo, la Periferia deve sopportare tutto l’onere dell’aggiustamento. Ciò significa che i salari dei lavoratori periferici devono drasticamente diminuire. Lo scopo ultimo delle “riforme strutturali” è quello di rendere i salari più reattivi a variazioni nella domanda/offerta sul mercato del lavoro, nonché quello di aumentare la produttività (su questa torno dopo). Tuttavia, come mostra il semplice modello di Merler e Pisani-Ferry (2012), mancando la possibilità di aggiustare i salari e di fare riforme strutturali nel breve periodo, le politiche fiscali rimangono l’unico strumento in mano ai paesi per cambiare il tasso di cambio reale. Come detto da Merler e Pisani-Ferry: “non c’è scampo all’austerity relativa” che, si badi bene, “è guidata da obiettivi sul tasso di cambio reale invece che unicamente da considerazioni sulla sostenibilità [del debito pubblico]”. Ebbene, dato l’assetto istituzionale di cui si è dotato l’UEM, l’austerity sembra l’unico strumento praticabile per riguadagnare competitività nel breve periodo. Tuttavia, lo sottolineo, dovrebbe essere “relativa”, cioè bilaterale. Cioè tutti i paesi dell’UEM dovrebbero adottare politiche fiscali in linea con un riequilibrio macroeconomico: il Centro dovrebbe liberare potere d’acquisto con espansioni fiscali così come la Periferia è chiamata a ridurlo con restrizioni fiscali. Azioni corrispettive che non si stanno verificando. Soltanto la Periferia ha oggi l’onere dell’aggiustamento macroeconomico, con l’adozione di politiche di austerity. Paul De Grauwe (2012) parla di “distorsione deflativa”. Paul Krugman di “sperimentazione non etica su esseri umani”. Il risultato è che le politiche di austerity adottate non soltanto sono probabilmente sbagliate, ma vengono anche perseguite in modo unilaterale. Se l’unico modo per riguadagnare competitività di prezzo è fare ‘dumping sociale’, per di più unilaterale, è evidente che c’è qualcosa che non va.
In questo modo l’aggiustamento dei conti con l’estero può arrivare sì, ma con una depressione della domanda, e forse solo con la Depressione. I debitori fan sì il pagamento dovuto ai creditori. I debitori fan sì la pace con i creditori. Ma si tratta di una pace simile a quella data dalla morte. Non certo una pace, una situazione di equilibrio, data dalla vivacità degli scambi tra attori economici. E alla stessa logica di depressione rispondono i consigli dati dal FMI e dall’OCSE attraverso la c.d. “svalutazione fiscale”: aumento dell’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) con contemporanea riduzione degli oneri fiscali per le imprese (riduzione dei contributi sociali versati dai datori di lavoro). Uno schema neutro dal punto di vista delle entrate fiscali, ma che, per come oggi è strutturata l’IVA a livello europeo, scoraggerebbe le importazioni senza toccare le esportazioni. A risentirne sarebbero dunque i consumatori della Periferia (e specularmente i produttori del Centro) a vantaggio di un riequilibrio dei conti nazionali con l’estero. Un riequilibrio che comunque determinerebbe una contrazione del commercio intraeuropeo. Simulazioni fatte sul Portogallo stimano che una svalutazione fiscale dell’1% di PIL produrrebbe un aumento di breve periodo delle esportazioni nette tra 0,2% e 0,6% di PIL (cfr. De Mooij e Keen, 2012).
Di questa discussione ciò che dovrebbe risultare chiaro è che, tralasciando la valutazione sulla correttezza delle politiche di austerity, all’interno dell’eurozona manca una certa “reciprocità”, manca un certo grado di cooperazione nella gestione degli squilibri macroeconomici. Le parole di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, lo sottolineano bene: “I paesi in deficit devono riaggiustarsi. Devono affrontare i loro problemi strutturali. Devono ridurre la domanda domestica. Devono diventare più competitivi e devono aumentare le loro esportazioni” (citato da Martin Wolf, FT, 10 aprile 2012). Mentre i paesi in surplus, secondo lui, non devono assecondare l’aggiustamento diventando meno competitivi, pena la perdita di dinamismo e di produttività per l’Europa intera: “si propone spesso che il riequilibrio dovrebbe essere intrapreso ‘incontrandosi nel mezzo’, cioè rendendo i paesi in surplus come la Germania meno competitivi. Questa proposta implica che l’aggiustamento sarebbe condiviso tra paesi in surplus e paesi in deficit. Ma la domanda che dobbiamo porci è: dove ci porterebbe ciò?… Come può l’Europa avere successo… se noi… rinunciamo alla nostra competitività duramente conquistata? Per avere successo, l’Europa intera deve diventare più dinamica, più inventiva, più produttiva” (citato da M. Wolf, cfr. supra). Come nota lo stesso M. Wolf, queste parole confondono la produttività con la competitività. Gli Stati Uniti, per esempio, sono più produttivi ma meno competitivi della Cina. C’è una chiara distinzione. Non è detto che chi è più produttivo sia anche più competitivo. La Germania, ad esempio, nell’essere più produttiva è riuscita anche ad essere più competitiva dei propri partner europei negli anni dell’euro grazie soprattutto a politiche di “moderazione salariale” e alla strategia di “stabilità dei prezzi” adottata dalla BCE. E’ probabile che se la Germania avesse aumentato maggiormente i salari (come ha fatto la maggior parte dei suoi partner europei) e avesse avuto un’inflazione più elevata (come è successo alla maggior parte dei suoi partner europei), non avrebbe registrato surplus così ingenti nelle partite correnti. E i paesi in deficit sarebbero stati meno in deficit. E la crisi sarebbe stata meno forte. E i lavoratori tedeschi sarebbero stati più felici (se ammettiamo che la felicità può esser misurata da una funzione d’utilità individuale crescente nel reddito, specialmente per redditi bassi).
Come afferma M. Wolf: “la competitività è necessariamente relativa”. La competitività esterna nell’UEM dipende dal tasso di cambio reale, ovvero dal rapporto dei prezzi fra due paesi (espresso nell’unica moneta, l’euro). Come nota M. Wolf, il tasso di cambio reale non è una variabile di politica economica. I membri dell’UEM possono solo cercare di migliorare la competitività tra di loro, uno rispetto all’altro. E’ quello che ha fatto la Germania a partire dalla nascita dell’euro: moderando i salari, con un’inflazione che su base annua è sempre stata al di sotto del 2% (l’obiettivo di stabilità identificato dalla BCE) quando invece quella dei PIIGS è sempre stata al di sopra del 2%, la Germania è riuscita ad essere il paese più “virtuoso” dell’eurozona (si veda, a questo proposito, quanto scriveva qualche mese fa in questo blog Andrea Presbitero). L’andamento delle partite correnti (cfr. Figura 2 del precedente post) riflette, dunque, almeno in parte, anche questa svalutazione del cambio reale. Ora la Germania deve permettere il processo inverso. Deve cioè accettare di perdere competitività. Non si tratta di essere magnanimi, ma di lasciare operare semplici principi di mercato che furono messi in luce già da David Hume a metà Settecento. Se in un’unione monetaria un paese strutturalmente in surplus finisce con l’avere un’inflazione sistematicamente minore dei propri partner, evidentemente c’è qualcosa che non va. Se la Germania è cresciuta così poco tra il 1999 e il 2007 (1.7% il tasso di crescita reale medio su base annua, solo l’Italia ha fatto peggio con 1,5%) a fronte di un’elevata domanda per i propri beni all’estero, è evidente che ha adottato politiche di contrazione della domanda interna. Ora la Germania deve togliere questi freni. Deve consentire un’espansione di credito interna, permettendo così all’inflazione di crescere. Se la Germania non asseconda questi aggiustamenti per così dire ‘naturali’, si finisce col chiedere ai paesi in deficit politiche economiche troppo onerose, ad un prezzo sociale troppo elevato, e probabilmente controproducenti, per tutti – Germania compresa. Il rischio per la Periferia è quello di cadere nella stagdeflazione. Una combinazione di stagnazione e di deflazione. O come dice A. Bagnai (cfr. supra, p. 80), una situazione in cui “l’aggiustamento dei prezzi e dei salari, che dovrebbe rilanciare la competitività e far ripartire l’economia grazie alla domanda estera (esportazioni), uccide la domanda interna prima di riuscire a rilanciare quella estera”.
Le esortazioni fatte da M. Wolf nell’aprile 2012, vanno riprese oggi, a gran voce, perché poco è stato fatto. I paesi in surplus, e in particolare la Germania, devono assecondare gli aggiustamenti macroeconomici all’interno dell’eurozona! Altrimenti le odierne politiche di austerity rischiano di riconsegnare un periodo prolungato di bassa domanda configurandosi sempre più come politiche d’impoverimento del vicino (beggar-thy-neighbour policy).
Andrea Papetti