Quale siano le reali motivazioni si fatica a capirlo. Quella ufficiale, per bocca dello stesso interessato, è che “non faccio il segretario del PD per non entrare in collisione con Letta”. Comunque sia, il fatto è che Matteo Renzi sembra proprio non voler essere il prossimo segretario del Partito Democratico.
La sua strategia adesso appare un po’ confusa, tra dichiarazioni di sostegno incondizionato all’”amico Letta” e frecciatine neanche troppo velate all’operato del governo di larghe intese. Ciò che appare chiaro è però la volontà, ribadita in più occasioni, di non volere assumere la guida del PD.
E stavolta questa scelta non mi trova d’accordo. Non che a Renzi manchino le ragioni tattico-strategiche per non fare il segretario di partito: lui, l’outsider che sogna un partito leggero, fluido, all’americana; l’outsider che teme di essere per questo coinvolto e risucchiato nelle dinamiche e nei meandri organizzativi di una macchina partitica lenta e pesante; che scorge il rischio di perdere agli occhi di un elettorato trasversale (e soprattutto di quello più spostato verso il centro-destra) quel crisma di giovane leader affrancato dalle logiche di partito e di corrente; che teme, in fondo, anche una conta congressuale all’ultimo sangue in cui potrebbe nascondersi il rischio di una bocciatura che lo brucerebbe definitivamente.
E’ vero, tutti questi rischi esistono per Matteo Renzi. Ma ne esiste uno ancor più grande, io credo. Quello di lasciare il partito in mano a quella vecchia dirigenza che, una volta (ri-)impadronitasene, un leader come Renzi può mangiarselo, quantomeno negandogli l’appoggio necessario di cui necessiterà come futuro candidato premier.
Ecco, Renzi sta puntando tutto sulla separazione in statuto tra la carica di segretario del partito e quella di candidato premier, ovvero sulla possibilità di un appello diretto all’elettorato che bypassi in qualche modo il partito. Ma anche un candidato premier forte e popolare non può prescindere dall’appoggio incondizionato di un partito leggero e competitivo. Il sindaco di Firenze più volte si è paragonato a Blair; mi piacerebbe ricordargli che Blair, prima di vincere tre elezioni consecutive, si è preso il partito, lo ha trasformato con fatica nel New Labour, lo ha reso un partito leggero e competitivo rispondente alla sua visione ideale, e poi lo ha guidato a straordinari successi. E’ vero che le condizioni storico-politiche erano altre e differenti, ma si sbaglia chi crede che oggi un leader vincente possa prescindere da una qualsiasi forma di organizzazione partitica. I partiti stanno cambiando forma, ma non sono affatto morti.
Renzi sta facendo i suoi conti, ed evidentemente sa che la candidatura alla segreteria del PD nasconde il rischio di un insuccesso e della fine prematura della sua brillante carriera politica. Io però mi sento di dirgli che la migliore strategia per il leader di una sinistra rinnovata è il CORAGGIO, al di là di qualsiasi ragione tattica. Il centrosinistra ha finalmente bisogno di un leader coraggioso, che rimodelli il PD e poi lo guidi alla vittoria.
Ci pensi, Matteo Renzi; per non correre il rischio di trasformarsi nell’ennesimo leader poco coraggioso morto di tatticismo.