Perchè in Italia non è possibile condurre un serio dibattito sui meriti dell’euro? Perchè qualunque ipotesi di potenziale uscita dall’euro è tagliata corta con il solito “è impossibile, avremmo 30% inflazione, fallirebbero le banche, ecc.” Siamo sicuri che, a parte i costi di breve termine, tra vent’anni l’Italia sarà un paese più sano e competitivo dentro l’euro, invece che fuori – riacquistando il pieno controllo della politica monetaria, fiscale, e del tasso di cambio?
La leadership britannica discute apertamente dei meriti dell’Unione Europea e di un eventuale abbandono da parte del Regno Unito. Il solito Boris Johnson, sindaco di Londra, ha riaperto il dibattito nei giorni scorsi. Questo è il link per gli interessati:
http://www.telegraph.co.uk/finance/financialcrisis/10046799/Britain-must-be-ready-to-walk-away-from-EU-says-Boris-Johnson.html
Difficile dire cosa la Gran Bretagna farà alla fine, ma se non altro il tema fa parte delle normale discussione di politica economica, con i suoi pro e contro. In Italia il solo citare l’uscita dall’euro è tabù, roba da comici o da politici del bunga bunga. Nel paese radical chic degli aperitivi e delle camicie su misura, fa bello dire che sei pro-euro – suona progressista, moderno, internescional. Se poi sia una scelta razionale di politica economica, beh quello è tutt’altro discorso.
Ci è stato raccontato che con l’euro si aprivano le porte di un mercato immenso: ma davvero conta di più per l’export la moneta di scambio della qualità dei prodotti venduti? Prada ha sfondato in Cina senza bisogno che l’Italia adottasse il renminbi. Il mercato comune europeo, con la libera circolazione delle merci e dei servizi, potrebbe funzionare benissimo anche con diverse monete: la Svezia ha un’economia floridissima e trainata dall’export verso l’Europa, e ha la sua moneta. Il mercato comune è rimasto un’illusione (provate a vendere frutta e verdura in Francia, o conti correnti in Germania, e vi renderete conto di come la moneta sia l’ultimo degli ostacoli a un mercato comune). La realtà è che l’euro ha solo assicurato alla Germania, nostro principale concorrente in molti settori (auto, elettrodomestici, meccanica) che l’Italia non fosse più un problema in quanto incapace di svalutare (come stanno facendo Giappone, Regno Unito e altri paesi anche “virtuosi” per fornire uno stimolo alla propria economia in momenti difficili come l’attuale). La verità è che senza l’euro, a causa dell’enorme surplus commerciale, la Germania avrebbe visto il cambio marco/dollaro raddoppiare: chissà quante BMW comprerebbero i cinesi se una Serie 5 costasse 80.000 euro invece di 40.000.
Ci è stato raccontato di un circolo virtuoso di miglioramento delle finanze pubbliche, in linea con i famosi criteri di Maastricht (tra parentesi, chi se ne ricorda più?): è successo esattamente l’opposto – per 10 anni abbiamo preso a prestito a tassi fasulli, eliminando ogni incentivo a mettere in ordine il bilancio e permettendoci di espandere la spesa pubblica a dismisura. E adesso che invece le aspettative di aziende e privati in Italia si avvitano, e il paese avrebbe bisogno di nuovi investimenti (non spesa, investimenti), ci accorgiamo che la nostra politica fiscale è decisa a Berlino e il 3% di deficit è il numero magico da non sforare a nessun costo. E mentre tutte le banche centrali del mondo cercano di stimolare l’economia tramite QE (acquisti di debito pubblico – la Federal Reserve e Bank of England hanno ricomprato il 25-30% del debito pubblico in circolazione), fare una cosa simile è vista come immorale e una violazione dei trattati dalla Bundesbank, che decide la politica monetaria in Europa limitando gli ambiti di manovra di Draghi.
Infine, la più grande delle balle: che i tedeschi sono stufi di mantenere l’Europa del sud. Il piccolo dettaglio che gli “esperti” dimenticano è che al momento la Germania prende a prestito a tassi di quasi 1% più bassi di quelli reali che pagherebbe se non ci fosse in atto un effetto “bene rifugio” con flussi di capitale in fuga dalla periferia dell’Europa. Il totale del debito dei tedeschi (aziende, individui, stato) è di circa 10 “trilioni”, che implica che al momento la Germania sta ricevendo un sussidio implicito di circa 100 miliardi di euro all’anno (il 7% del PIL Italiano) solo grazie all’Euro. Chi paga? Noi. E meno male che ci considerano mantenuti.
Lasciamo perdere gli argomenti più teorici, quali il presunto obiettivo di promuovere l’unificazione anche politica dell’Europa: per quello è più sufficiente il già ampio apparato di regole e direttive comunitarie, non serve anche la comunanza della moneta di scambio. E se unificazione politica vuol dire che il nostro primo ministro deve correre scodinzolante dalla Merkel poche ore dopo la propria nomina, non sono sicuro che abbiamo raggiunto l’effetto desiderato.
Il problema è che gli opinionisti radical chic scambiano l’euro per un fine, anziché un mezzo. La moneta unica avrebbe senso solo come mezzo per la promozione del benessere dei paesi membri, ma palesemente non lo è stato, almeno per il sud Europa. Con l’euro non solo abbiamo perso il controllo della politica monetaria nazionale, ma ci siamo assoggettati anche ai diktat di politica fiscale tedeschi. Certo, un’uscita dall’euro a breve termine sarebbe tutt’altro che facile da gestire (ad es. come impedire la fuga dei capitali all’estero prima del ritorno alla lira). Ma forse è ora di parlarne apertamente.
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