«Come t’ha fatto mammeta», dice la famosa canzone di Gambardella e Capaldo, «’o sacc megl ‘e te». Come ti ha fatto tua madre, lo so meglio di te. E tanto basta, forse, per descrivere il napoletano (o l’italiano?) medio. È una riflessione personale, intendiamoci subito: di quelle che si fanno a tempo perso, quando non sai che altro fare. Ci ragionavo giusto ieri sera. Una cosa del genere, più o meno, la disse anche Saviano durante la puntata de Il Testimone che lo vedeva protagonista: i napoletani, al poeta napoletano, non fanno i complimenti ma gli dicono che avrebbero saputo fare meglio di lui. Ecco, ci siamo: arriva la verità. Al napoletano di condividere in armonia, magari di accettare il parere altrui anche solo per quello che è e cioè un parere, non riesce proprio. Ovviamente ci sono le eccezioni che confermano la regola. Ma la regola, appunto, è tutt’altra: è la sacrosanta legge del più forte, quella di Madre Natura e della Giungla. Ci sono molte più persone pronte a prenderti in giro che a complimentarsi con te.
Complesso di inferiorità? Forse. Invidia? Non lo so, ma sinceramente fosse così sarebbe un vero peccato: sarebbe tutto talmente banale da non meritare nemmeno queste poche righe. Quello del “tu non sai niente, io so tutto” è un problema che si trascina da anni. Si è passati dall’avere una propria opinione su tutto ad essere giudici, giuria e carnefici di chiunque. E pensare – direbbe qualcuno – che in Italia, e specie a Napoli, a farla da padrona è quell’idea cristiana e bigotta del «Dio vede e provvede». Qualcosa deve essersi rotto. Cosa, adesso, è difficile da dire ma ci si può provare. In Italia non si viene più educati all’individualismo genuino, alla meritocrazia nuda e cruda; il doppio gioco, il colpo basso o anche solo la bugia sono diventati gli strumenti principi di una società infame, egocentrica ed egoista. Se manca questo, se manca la capacità di ascoltare, allora è inutile stare notte e giorno a criticare, a piangere e a lamentarsi: non è una frase fatta quella che dice «per trovare il colpevole, ancora una volta, non c’è che da guardarsi allo specchio».
Abbiamo lasciato che la nostra italianeità, la nostra simpatia, il nostro essere uomini di cuore si perdessero. Una volta, eravamo così. Oggi no. Oggi anche quando aspetti l’autobus senti le vecchiette che criticano questo o quello, le persone che ti giudicano senza nemmeno conoscerti, l’autista che non aspetterebbe un secondo di più per farti salire a bordo. Siamo sotto la legge marziale del «chi fa da sé, fa per tre». E se per qualcuno – i ricchi, i potenti, i privilegiati – questo potrà rappresentare un successo, lo stesso non si può dire per gli altri, la maggioranza. Si finisce sempre col farsi la guerra tra poveri. Piuttosto che parlarne, si preferisce litigare: non c’è tempo per ascoltare le ragione altrui; è la mia, la nostra parola quella che vale. Non la tua, non la loro. Esisto solo Io.
Da questo all’accettare il male minore, al credere che peggio di così non si possa andare; al perdere ogni speranza per un futuro migliore, il passo è breve. Anzi, è brevissimo. «Come t’ha fatto mammeta ‘o saccio megl ‘e te», recita la canzone. Padreterni, saccenti, sputasentenze: non è solo della mamma che la sappiamo più lunga, ma di tutti. E io non ne sono certo immune, altrimenti non starei qui a parlarne.