Napoli non è l’Inferno in Terra; non è – solo – il covo di serpi e malelingue, di fetenti e camorristi, di brutta gente e senza Dio. Napoli è una delle città più belle del mondo, è un ritrovo di menti e di idee, è una luce nel buio, è una storia che non finirà mai di essere raccontata. Con o senza i napoletani. Con o senza i politici, i buonisti, le associazioni e i giornalisti. Napoli è una cosa più grande di noi, una cosa eterna; una cosa che, solo a guardarla, ti lascia senza parole. Facile prendersela con Lei quando succedono disgrazie: quando muoiono due giovani per un cellulare; quando si insegue e si uccide su una delle vie principali, Via Posillipo. Facile alzare le spalle, stringere i denti e condannare. Facile. Anzi, forse è ancora peggio: è da vigliacchi.
Snocciolare i nomi dei quartieri, elencarli, far vedere che certe cose si conoscono non è certo cosa di cui vantarsi. È piuttosto una maledizione: come chi conosce il proprio male, ci convive da anni ed anni e non è ancora riuscito a trovare una cura. Ieri ho letto sul Fatto Quotidiano il pezzo di Arnaldo Capezzuto: una storia sacrosanta, fatta di verità e non di speculazioni; dove i colpevoli vengono messi al banco e le vittime, che sono tutti i cittadini, indiscriminatamente, vengono fatti accomodare dal lato della parte lesa. A Napoli si muore come se fosse niente: basta un’occhiata, una parola fuori posto e scatta la rissa. Ragazzi contro ragazzi, a muso duro e pugni chiusi: sembra una giungla vista così, non una città. Chi ha fallito è la comunità: chi ha visto e sapeva e non ha fatto niente. Chi poteva dire e non ha detto. Chi s’è sporcato la bocca di populismo e non ha agito. Comune, Regione, Stato: la giustizia, la legge, la volontà degli uomini per contratto sociale.
Siamo nel 2013 e a Napoli si muore ancora. Si muore in modo violento, sfracellati al suolo, intossicati da una speranza di futuro nocivo, lontana anni luce dalla realtà nuda e cruda. Si cerca una scorciatoia e si resta bruciati: un gioco che non vale la candela, ma che è l’unico che tutti, volenti o no, possono giocare. A cose fatte, si piange a lutto. A ragazzi morti si cercano i colpevoli e i carnefici. È la bestia che ancora una volta cerca di prendere il sopravvento sull’uomo: sangue chiama sangue. Mentre i neo-ricchi stanno comodi nelle loro poltrone, in alto nei loro bei appartamenti del Vomero e dintorni, la gente comune – la «plebaglia», l’ha chiamata giustamente Capezzuto – muore. Si affanna. E tutto per arrivare a fine giornata. Se lo stato siamo noi, siamo noi ad aver fallito. È innegabile. Le belle parole servono a poco per giustificarsi.
Non è certamente nella tragedia che va cercato il senso delle cose. Una tragedia è, per definizione, un evento particolare, improvviso, quasi – ma non del tutto – imprevedibile. È nella vita di ogni giorno che bisogna trovare una risposta: quantomeno i sintomi di un cancro che non accenna a fermarsi. In chi cammina per strada e non abbassa lo sguardo sullo sfortunato; nel vecchio preso in giro e deriso, nei “buffuncielli” che ridono e scherzano, prendendosela col più debole. Nella risata sguaiata, fuori posto. Nella gioia malsana di vedere l’altro soffrire. Una medicina va trovata, ma prescriverla adesso, soffiando duramente sulle leggi e sulle riforme, potrebbe essere precipitoso: agisco se consoco, non se ignoro. Io invito i grandi, i potenti, quelli che si lavano la bocca di politica e giustezza a venire a Napoli, a viverci. A innamorarsene. E poi a morire piano piano, così poi sapranno: sapranno cos’è che un popolo chiede ogni santo giorno. Sapranno che a Napoli le promesse non bastano più.