Oggi era tardi e per pranzo mi sono sparato un panino in un elegante bistrot cinese di Paolo Sarpi, che poi sarebbe la Chinatown milanese. L’oste è un raffinato conoscitore di vini e dispensatore di proverbi, che trascrive in bella calligrafia sui biglietti da visita del bar. Il suo preferito, profetico, è “Ognuno ha la sua croce”.
Apro la porta e vengo travolto dalla voce di una donna, autoritaria, coltissima e a volume sparaflashato, che parte dal televisore: è in onda la puntata di un format tribunalesco ed è il momento dell’arringa. E’ una causa civile, e il piglio dell’avvocatessa è talmente incazzoso e martellante che smozzicando il panino uso la mano sinistra per controllare i documenti in saccoccia, poi per informare un amico avvocato -immediatamente nominato mio tutore- degli spostamenti degli ultimi otto mesi, controllo di aver pagato tutti i bolli del motorino nell’ultimo lustro e invito il mio commercialista a visurare in tempo reale tutte, ma proprio tutte le mie ricevute dal giorno del raggiungimento della maggiore età: se doveva convincerci di essere colpevoli di qualche cosa, una qualunque, l’avvocatessa televisiva ci è riuscita benissimo. E dire che aveva cominciato l’arringa da due minuti scarsi, dando l’impressione di poter andare avanti senza soste per almeno sei, sette settimane, sempre allo stesso assurdo volume. La vera incongruenza in fondo non sta nel tono, ma nello spreco di energie: perché tutta quest’enfasi per una sentenza che arriverà subito dopo la reclame, ad occhio cinque minuti? Fossi candidato alle primarie del Pd, la mia mozione sarebbe corredata da una proposta semplice: riforma della giustizia partendo dai tempi del giudizio, da calcolarsi nella media matematica tra quelli del tribunale televisivo (un blocco pubblicitario) e quelli del processo civile medio (cinque anni). Ne parlerò con Pittella, potrebbe essere l’asso nella manica per stravolgere l’esito -già annunciato- del congresso. E in caso di guai, contattare comunque l’avvocatessa-belva: con i codici se la cava benissimo, ma anche come antifurto non sfigurerebbe.
Comunque, al bar, non abbiamo avuto il coraggio di arrivare alla sentenza, l’avvocatessa era sempre più nervosetta. L’oste cinese ha cambiato canale. Come in una specie di climax discendente, è comparso sullo schermo il Parlamento, impegnato nel noiosissimo rito del question time. Per chi non fosse avvezzo: un parlamentare presenta domanda scritta di chiarimento ad un ministro e la espone in forma serissima ed interrogativa; il ministro risponde, spesso sbirciando un prestampato e leggendolo per la prima volta mentre parla al microfono; poi, il parlamentare replica, quasi sempre per dire che la risposta è falsa, incompleta, cialtrona oppure -casi rari che sembrano perfino concordati- perfettamente soddisfacente. Tutto si svolge nell’aula praticamente vuota, con un copione senza grossi guizzi. I pochi parlamentari presenti seguono pedissequamente il canovaccio, cercando di aiutare il regista tv: ci si può sedere vicino al collega di partito per far sembrare l’aula meno vuota, applaudire fragorosamente dopo un intervento, fingere stupore o disprezzo, evitare di sbadigliare, magari mettersi un dito nel naso per attirare l’attenzione. Insomma: c’è una emergenza question time. Ecco alcune proposte risolutive in ordine decrescente di impatto: spostare il question time in un’aula più raccolta, tipo assemblea di condomino; riempire il parlamento di comparse; cambiare scenografia ogni tanto, alternando l’aula a paesaggi lunari, cartoline delle bellezze d’Italia, sfondi da desktop selezionati e creati dagli utenti con apposito concorso; ultima ratio: abolire il question time e istituzionalizzare lo speaker corner, con apposita selezione dei concorrenti sul modello di “X Factor”. GIudici: Mara Maionchi (materia: estensione vocale sconfinata), Cristiano Malgioglio (stile) e Emanuele Filiberto di Savoia (diritto costituzionale), cui è autorizzato per un secondo, ma solo per un secondo, un rimpianto ad personam per la vittoria della Repubblica nel referendum del 1946.
Poi, mentre pago il panino e la ministra De Girolamo termina il suo intervento su etichette e tracciabilità dei prodotti, entra nel bar un signore sudamericano, saluta caramente l’oste cinese, gli spiega che la sinquentaysiete (la 57, intesa come autobus) è sempre in ritardo, chiede di poter cambiare canale (la televisione italiana non è per niente guapa) per ascoltare della buona musica latina. L’oste cinese strizza l’occhio e gli porge il telecomando.