Quando sono lontano da Milano e ho nostalgia della mia città, penso spesso a Piazza della Repubblica. Trovo che sia una delle poche piazze veramente europee di Milano e che abbia un’eleganza impareggiabile, capace di unire spazi verdi e grattacieli, binari di tram frequentatissimi a grandi alberghi esclusivi, in una sintesi perfetta tra tradizione e modernità. Immagino gli anni del boom economico; Milano ne è il traino e questa grande piazza tra la Stazione Centrale e il Duomo sembra il campo perfetto per realizzare i sogni della classe dirigente, fatta di capitani d’industria, professionisti e manager che amano un’architettura elegante e sobria, che cerca l’altezza ma che è a misura della crescita economica che sta attraversando il paese: anzi, quasi la celebra. In questi anni, invece, Milano vive una contraddizione. In un momento di grande recessione costruisce verso l’alto con un apparente gigantismo (Garibaldi-Isola e Fiera), che l’avvicina certo all’Europa –e anche a molte costruzioni di ricchi paesi arabi– ma che non pare rappresentare il tempo presente della città, il suo stato sociale ed economico, ed in parte anche la storia. Molti commentatori hanno sollevato il rischio di interi pezzi di città nuovi, ma vuoti, perché economicamente inaccessibili; altri hanno celebrato la natura internazionale delle nuove costruzioni e la confidenza crescente dei cittadini con questi spazi, circondati da negozi, ristoranti e in futuro anche da spazi verdi (speriamo in grande quantità). Solo il tempo potrà giudicare l’impatto sul tessuto urbano della città di questi nuovi quartieri, a cui presto si aggiungerà anche l’area Expo; intanto, un bel libro pubblicato da Donzelli, “Storie di case”, riaccende l’attenzione sugli anni del boom e su una certa sensibilità nella costruzione di edifici “signorili ma non di lusso”, sbocciata a Milano, Roma, Torino e Napoli, proprio negli anni di maggior vigore economico e culturale del dopoguerra. Ne ho parlato con Federico Zanfi e Filippo De Pieri, tra gli autori del volume; nella nostra chiacchierata siamo partiti proprio dal rapporto tra epoche economiche e tendenze architettoniche.
Quali sono le principali caratteristiche di queste costruzioni “signorili ma non di lusso”? Ci sono tratti, esigenze comuni a esperienze diverse?
FDP – La tua domanda coglie bene uno dei tratti più notevoli delle case costruite per i ceti medi nel secondo dopoguerra, che da un lato incarnavano l’illusione, tipicamente borghese, che quella che si stava costruendo in quegli anni fosse una società di simili, apparentemente priva di forti contrasti e differenze, e al tempo stesso sostenevano l’aspirazione, anch’essa tipicamente borghese, a distinguersi dai propri vicini senza fare troppo chiasso, attraverso piccole o grandi sfumature negli stili di vita e di consumo. Ecco perché queste case possono da un lato apparire tutte uguali e dall’altro mettono in scena piccoli espedienti per apparire infinitamente diverse, anche se a distinguerle sono magari soprattutto alcuni dettagli – la piastrella di pregio nel rivestimento esterno, il lampadario o la scultura collocati nell’androne.
Quello che abbiamo provato a fare con la nostra ricerca è stato osservare in che modo le professioni dell’edilizia e il mercato cercavano di elaborare modelli per inseguire le aspirazioni degli acquirenti, e d’altra parte capire in che modo la società italiana (che era tutto sommato ancora molto plurale e anche molto tradizionale nelle proprie esperienze abitative) abbia saputo adattarsi a oggetti edilizi che, essendo pensati per una produzione di massa, tendevano a riproporre un numero limitato di schemi e soluzioni ispirati a un ideale di modernità piuttosto rigido. Non è da escludere che sul lungo periodo una delle conseguenze di questo incontro/scontro sia stato un progressivo uniformarsi delle culture abitative, una sorta di unificazione del Paese ad opera dei geometri…
Molte di queste costruzioni non sono state considerate esemplari dal punto di vista prettamente estetico: troppo legate alla moda, o a materiali eccessivamente impegnativi. Potete farci invece qualche esempio di “rivalutazione” storica necessaria (palazzi, case), alla luce della vostra ricerca?
FDP – Molta della produzione edilizia di quegli anni è mediocre sul piano formale come su quello progettuale o tecnologico e sarebbe sciocco negarlo; al tempo stesso è vero che all’interno di questa produzione si nascondono – alcuni li abbiamo studiati nel libro – diversi edifici interessanti e poco conosciuti, opere di un professionismo minore che era capace di muoversi con competenza dentro il mercato e di rispondere a un bisogno diffuso di qualità residenziale. Soprattutto però direi che la nostra ricerca non ha l’obiettivo di dire se questi edifici sono belli o brutti, questione in fin dei conti molto poco appassionante, ma piuttosto di fare un passo di lato e di considerarli tutti come potenzialmente degni di interesse per quello che possono dirci sulla società che li ha costruiti e abitati. Se le si studia da vicino queste case raccontano, con la precisione e se vuoi la crudeltà che solo le testimonianze materiali possono avere, molte cose sull’Italia di quegli anni e sulle sue aspirazioni, e anche su quello che è successo dopo.
FZ – Vorrei ulteriormente chiarire quest’ultimo aspetto. Da alcuni colleghi è venuta l’accusa di volere fare, con Storie di case, una sorta di apologia di uno stock edilizio mediocre, da cui le nostre città dovrebbero invece provare a sbarazzarsi. Il nostro studio non ha mai avuto questo fine, non è mai stata nelle nostre intenzioni la volontà di ribaltare il giudizio estetico che comunemente viene espresso in negativo quando si parla di questa edilizia. Il nostro studio cerca di guardare le case del boom per quelle che sono: ritornando sulle fasi della loro costruzione, osservando come sono abitate e usate oggi, e semmai provando a porre implicitamente – attraverso la ricostruzione di queste traiettorie – alcune questioni sul loro futuro. La ricostruzione delle loro storie e la lettura ravvicinata del loro presente sono passaggi imprescindibili, a nostro avviso, per provare a ripensarle, oggi che queste case mostrano diversi aspetti problematici. A nostro avviso questo ripensamento non dovrà necessariamente passare attraverso una loro conservazione, anzi. In questo senso il nostro studio non vuole proporre nessun giudizio di valore, cerca piuttosto di porre una questione all’attenzione generale.
Gli edifici descritti nel libro sono sempre stati ad appannaggio di una classe sociale benestante, ma anche aperti ai sogni della piccola borghesia. Questo meccanismo oggi sembra inceppato. Solo colpa dei costi alti oppure c’è una decisa tendenza della classe media alla ricerca di una vita lontana dalla città?
FDP – Non bisogna dimenticare che nei decenni del secondo dopoguerra l’Italia ha conosciuto, oltre a una fase prolungata di espansione dell’economia che ha permesso a molti di accedere a livelli di benessere che fino a poco prima sembravano irraggiungibili, anche politiche pubbliche che spingevano con forza per rendere accessibile la proprietà della casa a diversi strati della piccola borghesia. Si può dire che le politiche per la casa avevano tra i propri obiettivi prioritari proprio quello di favorire la costruzione o il rafforzamento di un ceto medio all’interno della società italiana. Oggi quella stagione di politiche di sostegno all’abitazione è per molti aspetti conclusa, non solo in Italia, e la difficoltà di accedere alla casa (o di mantenere la condizione abitativa che si è ricevuta da una generazione precedente) è uno degli aspetti più evidenti di una crisi del ceto medio che assume contorni talvolta drammatici.
FZ – Un aspetto dell’inceppamento del meccanismo lo si può vedere oggi proprio osservando le case del boom da vicino, perché il trasferimento del livello di benessere raggiunto attraverso la proprietà di quelle case alle generazioni successive sembra essere sempre meno facile. C’è in primo luogo la questione demografica, con vite che si allungano, anziani che vivono per lungo tempo soli in questi alloggi, e che non riescono a trasmetterli come eredità ai propri figli nel momento in cui questi ne avrebbero bisogno per mettere su casa. C’è poi una questione tecnologica, per cui questi tutti edifici vivono quasi simultaneamente un’emergenza manutentiva che ha per molti abitanti costi difficili da affrontare, o comunque costi non coerenti con la propria prospettiva di vita nell’edificio. E poi c’è una questione fiscale legata alla proprietà della casa che sta davvero cambiando molte delle certezze legate a questo tipo d’investimento immobiliare. La sensazione è che, aldilà della questione tecnologica, da tempo registrata dai policy makers attraverso gli incentivi alle ristrutturazioni e all’efficientamento energetico, le politiche pubbliche ancora stentino a comprendere le dimensioni del fenomeno – che sono molte e complesse – e a proporre un’agenda che sia all’altezza dei temi emergenti. E’ un tema ineludibile per l’urbanistica delle nostre città, e proprio in questi giorni ne stiamo discutendo al Politecnico in un ciclo di seminari che s’intitola Dal miracolo alla crisi.
Il rapporto tra epoche economiche e tendenze architettoniche sembra perfettamente rispecchiato negli anni del boom: si cerca l’altezza ma con sobrietà, mentre parti della città restano “a misura d’uomo”. Il gigantismo di questi anni, a Milano, rischia di essere fuori tempo massimo?
FZ – C’è l’aspetto che tu cogli, del rapporto tra economia in forte crescita e altezza degli edifici, ma l’edilizia del boom racconta soprattutto di un tentativo di estrarre la massima rendita possibile dal suolo urbano, quindi salendo in altezza con i fabbricati, anche con stratagemmi e accordi molto poco trasparenti con le amministrazioni del tempo. Diverse storie raccolte nel volume ci raccontano proprio di queste negoziazioni e di queste “imprese”. Venendo a oggi, partirei dal dibattito internazionale sugli edifici alti che c’è stato tra gli anni Novanta e Duemila. Un dibattito in cui molti architetti, urbanisti e amministratori si sono inseriti sostenendo la necessità – non solo nelle metropoli dei paesi in forte crescita, ma anche nelle città europee, anche a Milano – di ricorrere all’edificio alto per contrastare la diffusione urbana e per ridare capacità e dinamismo alle parti centrali delle città. Io non so se la stessa enfasi potrebbe essere riproposta oggi, dentro la crisi immobiliare in cui siamo. Non so se quelle forme e quelle volumetrie oggi incontrerebbero una domanda. Se i discorsi sulla compattezza del tessuto edilizio e sulla densità restano più che condivisibili, forse si tratta di capire quali parti di città esistente possono incrociare queste esigenze ed essere ripensate di conseguenza, e proprio le case del boom potrebbero offrire in questo senso una chance in termini di “abitare denso” e di riqualificazione energetica.