La materia non è solidaMorti viventi

«Malgrado la fatica degli storici, degli scribi e degli archivisti di ogni specie, la quantità di ciò che va irrimediabilmente perduto è infinitamente più grande di ciò che può essere raccolto negl...

«Malgrado la fatica degli storici, degli scribi e degli archivisti di ogni specie, la quantità di ciò che va irrimediabilmente perduto è infinitamente più grande di ciò che può essere raccolto negli archivi della memoria. In ogni istante, lo scialo ontologico che portiamo in noi stessi eccede di gran lunga la pietà dei nostri ricordi e della nostra coscienza. Ma questo caos informe del dimenticato non è inerte né inefficace. Vi sono una forza e un’operazione del dimenticato, che non possono essere misurate in termini di memoria cosciente né accumulate come sapere, ma la cui consistenza determina il rango di ogni sapere e di ogni conoscenza. Ciò che il perduto esige, non è di essere ricordato e commemorato, ma di restare in noi e con noi in quanto dimenticato, in quanto perduto – e unicamente per questo, indimenticabile […].

L’alternativa qui non è fra dimenticare e ricordare, essere inconsapevole e prendere coscienza: decisiva è la capacità di rimanere fedeli a ciò che – pur incessantemente dimenticato – deve restare indimenticabile, esigere di rimanere in qualche modo con noi, di essere ancora – per noi – in qualche modo possibile […]. Se, invece, rifiutiamo questa esigenza, se perdiamo ogni relazione con la massa del dimenticato che ci accompagna come un golem silenzioso, allora essa si manifesterà in noi in modo distruttivo e perverso, nella forma di ciò che Freud chiamava il ritorno del rimosso, cioè il ritorno dell’impossibile come tale». 

Giorgio Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 43-44.

Pensiamo all’Olocausto. La paura di dimenticarlo è cocente, ora che ci stiamo avvicinando alla prima generazione cresciuta senza “uomini che hanno vissuto la guerra”. Ma, seguendo Agamben, non vi deve essere alcuna paura di dimenticare se, seguendo Freud, ciò che dimentichiamo è ciò su cui abbiamo lavorato, se ciò che stiamo per dimenticare sappiamo che è qualcosa di possibile, ogni giorno, tutti i giorni. La paura non è di dimenticare l’Olocausto ma di vederlo ripetersi. Ma se un oblio dovesse determinare il ripetersi di ciò che è accaduto, non è perché si dimentica ciò che è accaduto, ma perché si dimentica ciò che ha significato. Si dimentica che è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni volta in forme diverse, non necessariamente quelle del lager: di nuovo, è sempre qualcosa di possibile. Se non prendiamo coscienza di questo c’è il ritorno del rimosso, quello che la filmografia moderna ha ben rappresentato con la figura dello zombie: deve essere morto, trapassato; allora perché persiste? Si dimentica ciò che si fa proprio, e che in quanto proprio non c’è bisogno di portare alla mente ogni volta. Questo è l’oblio che cancella l’ossessione di ricordare, elimina la necessità di fissare immagini, forme, senza badare a sostanze e contenuti. Se non si ricorda l’Olocausto in quanto possibile, se non lo si ricorda come ciò che ha significato per noi, la sua crudeltà ritorna e persiste come un’inammissibile morto vivente.

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