“Se vuoi mettere alla prova familiari, amici e parenti, devi dire loro che hai intenzione di convertirti all’Islam. Vedrai che, se ti va di lusso, ti compatiranno. Se ti va male, invece, sei fritta. Perché se il giorno prima eri considerata da tutti come la tipica brava ragazza studiosa e diligente, poi diventerai una povera pazza, una malata mentale, una terrorista”: così parla Giovanna Maida M., 24 anni, in una delle testimonianze raccolte nel libro “Diversamente italiani – inchiesta shock sui convertiti all’Islam” di Silvia Layla Olivetti.
L’autrice, di Venezia, scrittrice e operatrice multiculturale, musulmana da 13 anni, attratta dal “mondo arabo” sin da bambina, e che si definisce “un minuscolo frammento di questo mosaico in continua crescita” (dal 2001 l’Islam è infatti la religione con il più elevato tasso di crescita, ndr), ha iniziato ad interessarsi all’Islam nel 1990, ma la svolta è arrivata dopo l’11 settembre 2001. Nel 2011 ha fondato il Movimento per la tutela dei musulmani in Italia.
Il libro-inchiesta ci conduce per mano nelle storie degli italiani che hanno scelto di abbracciare l’Islam; si lascia leggere tutto d’un fiato, non sempre facile da capire – bisogna spogliarsi dei propri pregiudizi -, provocando commozione, ma anche rabbia e sgomento per le storie forti che contiene. Commozione e rabbia nel leggere che chi decide di abbracciare un’altra fede, diversa da quella dei propri genitori e della società circostante, viene spesso allontanato dalla stessa famiglia, sgomento per la rabbia verso l’Occidente che fa da leitmotiv a molte di queste esperienze. “Il vissuto di ognuno è diverso – spiega l’autrice -: l’Islam in Italia non è un monolite e la realtà dei musulmani cambia col variare dell’area geografica di residenza. Il Nordest è notoriamente poco recettivo nei confronti dei musulmani. Non è facile vivere a Treviso, Venezia, Padova. La discriminazione si sente nell’aria, si respira, si vive quotidianamente e questo certamente influenza negativamente la percezione che i musulmani hanno della società. Il Veneto, la mia regione, non ha una comunità musulmana omogenea e vasta come invece la Lombardia, bensì una realtà molto eterogenea, composta da una miriade di diverse culture: questo si traduce in diverse posizioni e vissuti personali. Un musulmano che sente di appartenere a una grande comunità con la quale condivide esperienze e vita quotidiana avrà anche la tendenza a sentirsi meglio nel contesto in cui vive e a non considerarlo ostile. Viceversa, il fatto di percepirsi come isolati, rifiutati e in minoranza, genera sentimenti negativi e pessimisti rispetto al resto della società. Chi si sente discriminato di solito innalza barriere, si autoesclude o più in generale tende a mettersi sulla difensiva. In quest’ottica è comprensibile che alcuni maturino il desiderio di emigrare altrove, in zone percepite come maggiormente accoglienti e nelle quali trovi riscontro il desiderio legittimo di appartenenza”.
Ventiquattro i capitoli che compongono il libro, corrispondenti ad altrettante testimonianze, raccolte in un anno e mezzo di lavoro: da chi prima era quasi allergico alla parola “religione”, all’ex prostituta, dalla ragazza che ha perso una carissima amica nell’attentato delle Torri Gemelle, all’ex mercenario, per fare alcuni esempi. Ma si trovano anche interviste a familiari di chi ha deciso di convertirsi, come quella al giornalista, ateo, che difende il diritto della sorella di poter esprimere pubblicamente la sua fede, fino alla madre che non accetta né il matrimonio con lo straniero della figlia, né la sua conversione: “Fa male constatare quanto ancora la nostra fede sia motivo di esclusione, emarginazione, incomprensione e rifiuto – prosegue l’autrice -. Questa inchiesta è una conferma di quanto il resto della società ci consideri ancora una nota a piè di pagina. Ho selezionato le storie più toccanti tra quelle raccolte: ritengo che abbiano la maggiore potenza evocativa immediata e le migliori possibilità di toccare il cuore di chi legge, a volte in positivo, a volte in negativo. Sono storie che raccontano, attraverso la fede, un vissuto, tragico, violento, felice o ai margini, che in fondo si ritrova in chiunque, anche nel vicino di casa non musulmano. Conosco personalmente alcuni degli intervistati, altri sono invece persone con le quali mi relaziono sulla mia pagina facebook ma che oramai, dopo anni di confronto virtuale, posso dire di considerare amici a tutti gli effetti”.
L’obiettivo è proprio scardinare i pregiudizi contro i “nuovi” musulmani: “Queste testimonianze obbligano il lettore ad affrontare pregiudizi, timori e luoghi comuni tipici che ruotano attorno ai musulmani, facendogli però scoprire con sollievo che sono infondati, perché in realtà i musulmani non sono alieni, sbarcati da Marte con intenzioni bellicose: sono i nostri vicini di casa, i compagni di banco dei nostri figli a scuola. Sono persone che hanno vissuti simili a quelli degli altri italiani, le stesse speranze per il Paese, le stesse necessità affettive, sociali, lavorative, le stesse paure per il futuro e la stessa voglia di accompagnare l’Italia fuori da questa crisi economica. Sono persone che lavorano con impegno, che condividono con i non musulmani delusioni, rabbia e voglia di cambiamento per il Paese. In una parola: sono italiani. Vorrei che questo libro fosse una sorta di finestra aperta su noi stessi, uno spunto di riflessione per i non musulmani e un’occasione per cominciare a mettersi in gioco per i “convertiti”. La sfida è aperta, la strada è ancora tutta in salita. Ma il primo passo è stato fatto”. E aggiunge: “Ho vissuto e vivo ancora oggi sulla mia pelle, alcune delle problematiche comuni a tutti i ritornati all’Islam (ritornati in quanto, per l’Islam, tutti dalla nascita sono musulmani, ossia sottomessi a Dio, ma in base all’educazione familiare possono prendere strade diverse dall’Islam, ndr) : la famiglia non ti riconosce più, gli amici ti considerano impazzita e spesso ti allontanano, arrivando persino a toglierti il saluto. Se poi decidi di indossare il velo, puoi dire addio al lavoro. Lo zoccolo duro è rappresentato dall’incapacità italiana di rapportarsi al “diverso” in termini che non siano il rifiuto, l’emarginazione o l’integrazione per fagocitosi. Altrove in Europa la condizione dei musulmani, ritornati o meno, è di gran lunga migliore ed è davvero difficile riscontrare situazioni di aperta discriminazione. Qui manca la disponibilità ad accogliere la differenza, in qualunque modo la si declini: ci vorranno un paio di generazioni perché l’Italia possa raggiungere il resto d’Europa quanto a capacità di condivisione. I bambini che oggi hanno 6/10 anni sono abituati a relazionarsi con culture, razze e religioni diverse e lo fanno con grande naturalezza: è un segno che fa ben sperare per il futuro. Ho intervistato molti bambini nel corso della mia inchiesta e quello che ne è emerso è davvero incoraggiante: alcuni, alla domanda “ci sono stranieri nella tua classe?” hanno risposto “no, ci sono solo bambini”. Ecco, questo è esattamente il traguardo da raggiungere: non percepire il diverso come altro da sé, pur mantenendo ognuno le proprie caratteristiche identitarie”.
Ma non chiamateli “convertiti”: “Quando qualcuno ci dà dei convertiti, c’è sempre un retrogusto di disprezzo nella voce e nelle intenzioni – spiega Carlotta Mujahida, 37 anni, musulmana dal 2003 in un’altra testimonianza -. Il significato di convertito rimanda a una duplice menomazione: vuol dire che sei italiano, ma anche che il tuo dna è mutato. Insomma, sei un cittadino che è divenuto altro da sé, e sei musulmano, ma non essendo nato tale sei considerato mutilato nella fede. (…) Per favore, non chiamateci convertiti: (..) siamo semplicemente musulmani italiani”.
Non è facile al giorno d’oggi essere musulmano ed italiano, come sottolinea l’autrice: “E’ una sfida quotidiana, un percorso a ostacoli, una continua passeggiata in equilibrio sul sottilissimo filo invisibile che ci separa dall’emarginazione familiare, sociale, lavorativa. Riuscire a mettere insieme fede e cittadinanza senza rinunce è difficile ma possibile. Bisognerà lavorare molto sull’idea al momento largamente condivisa che”musulmano” significhi “straniero”. Per molti di noi, la fede islamica costituisce una menomazione coatta della cittadinanza. Non possiamo tollerare questa sottrazione continua della nostra identità: siamo italiani, fieri di esserlo, ma siamo anche musulmani e consideriamo questo come una marcia in più, un valore aggiunto da mettere a disposizione del Paese per contribuire al suo miglioramento. La comunità musulmana in Italia sta ancora lottando per dimostrare la non tossicità sociale dei musulmani e dell’Islam. Mentre in Inghilterra, ad esempio, la questione del velo o della barba non si pone più da molto tempo, dato che si possono trovare donne con niqab (il velo integrale tanto discusso in Italia) tranquillamente al lavoro in uffici pubblici o uomini con lunga barba al check in dell’aeroporto che fanno scrupolosamente il loro lavoro, in Italia siamo indietro di parecchie lunghezze, ma sta proprio a noi musulmani italiani accorciare le distanze: noi condividiamo col resto della società cultura, lingua madre, storia, gioie e dolori di questo Paese e di conseguenza meglio di chiunque altro sappiamo come rapportarci alla nostra gente, sappiamo scegliere il linguaggio vincente, le parole giuste. Dobbiamo solo fare il primo passo”.
E’ possibile ordinare il libro direttamente dal sito della casa editrice a questo link: http://www.curciostore.com/product_info.php?products_id=400