Non è un movimento, non ha rappresentanze. Anzi, proprio perché non ci sono rappresentanze, gli spettri delle rappresentanze passate sperano di ritrovare, nell’impresentabilità di un movimento che non è un movimento, una loro presentabilità.
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Non ha slogan (“Tutti a casa” è lo slogan di chi non ha slogan). Non ha un programma. Insomma, non è un movimento.
Dentro ci trovi di tutto. I telegiornali enfatizzano l’estremismo proto-fascista, ragionevole a vedere quelli che si fanno intervistare. Ma il movimento dei forconi non è solo la Jaguar di Danilo Calvani, il naturalismo contadino di Mariano Ferro o lo stile da rock toscano anni ‘90 di Andrea Zunino. Non verrà ricordato per queste icone posticce, ma perché è frammentato, eterogeneo, disordinato, e vuoto.
La metafora del forcone è perfetta: cosa fanno gli abitanti insofferenti di un piccolo paesino in un immaginario mondo rurale dove la vita della comunità non è scandita dalle istituzioni ma dal sorgere del sole? Prendono il forcone. Disordinatamente, incessantemente, si mettono al posto del boia, fanno un casino pazzesco confondendo buoni e cattivi e non risparmiano nessuno. E’ una vecchia metafora illuminista, quella del volgo che lasciato a se stesso, senza un’educazione razionale, si abbandona in una caccia alle streghe infinita. “Tutti a casa” significa svuotare le istituzioni per non lasciarci nessuno, giusto il tempo per dare al primo della classe in populismo l’occasione di occupare la poltrona lasciata vuota. Una specie di socialismo storico che implode in un rigurgito restauratore.
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Non si può dire che al giorno d’oggi manifestare abbia una sua efficacia. Ve lo ricordate Occupy Wall Street? Chiedeva una cosa rivoluzionaria: la fine dell’ingerenza della finanza nella politica. “We are the 99%”, uno slogan che ritorce l’uso del numero contro chi riduce tutto ai numeri, al profitto calcolato e al consenso numerato. Una richiesta forte, stravolgente, un ritorno a tempi dimenticati, quando politica ed economia finanziaria erano due mondi separati che dovevano restare separati. Insomma, un movimento importante, con le palle, che chiedeva una vera rivoluzione. I marxisti ci hanno visto addirittura un prolegomeno a future sommosse a macchia di leopardo all’insegna dei fasti del 1848. Per ora però, di questo movimento ricordiamo solo la sua estetica e i bellissimi libri di Slavoj Zizek pieni di citazioni cinefile. Un’inefficacia ingiusta, dovuta più al fatto che non innesca, o non ha ancora innescato, il passaggio alla consapevolezza istituzionale. Chissà, forse è questione di tempo, di una generazione. Ma una cosa è chiara, c’è un’estetizzazione molto potente della manifestazione, un estetismo della protesta che minaccia la sua stessa efficacia. E non è un caso che quelli che vogliono ottenere visibilità dal movimento dei forconi sono quelli che vivono un’ideologia ridotta alla sua estetica, ad un’attività politica che si esercita nella figura dell’ultras.
A Napoli si dice fare ammuina quando, non sapendo come fare quello che si vuole fare, si fa qualunque cosa in ogni caso, basta che non si sta fermi. Lasciando stare le prospettive, le inquietudini, le metafore e l’estremismo retorico, alla fine cosa resta dei forconi? Un movimento frammentato ed eterogeneo che desidera un sacco di cose, troppe, anche cose che magari lo “Stato” non ha mai dato né mai darà. E’ un movimento che vuole. Vuole un “fortissimamente vuole” rovesciato, lapalissiano, retrocesso: vuole solo volere, vuole manifestare e basta, visto che non sa più come si fa né a che serve.