Mercato e LibertàGiovanardi: “il proibizionismo ha salvato il mondo”. E fatto ricco Al Capone

Ieri mattina, ospite di Alessandro Milan nella trasmissione radiofonica 24 Mattino, Carlo Giovanardi ha sostenuto una tesi alquanto singolare. Invitato in veste di contraddittorio del radicale Marc...

Ieri mattina, ospite di Alessandro Milan nella trasmissione radiofonica 24 Mattino, Carlo Giovanardi ha sostenuto una tesi alquanto singolare. Invitato in veste di contraddittorio del radicale Marco Cappato per dibattere sulla legge volta a legalizzare (e statalizzare) la produzione e il consumo di marijuana in Uruguay, l’ex ministro – che, in linea con le sue posizioni, boccia l’iniziativa – ha testualmente affermato che “il proibizionismo ha salvato il mondo”.

Nonostante i punti di forza, un modello come quello che verrà sperimentato nei prossimi mesi in Uruguay lascia sin da ora spazio a diverse perplessità, su cui si può e si deve discutere. Se, da un lato, molti sostengono che la legge contribuirà a sottrarre una consistente fetta di mercato ai narcotrafficanti e a garantire la “qualità” del prodotto, d’altro canto, il monopolio della produzione in mani statali, la vendita permessa nelle sole farmacie, il tetto massimo di consumo mensile e la schedatura dei fumatori fanno storcere il naso e inducono tanti altri a credere – come fa, del resto, la maggioranza degli uruguaiani – che si tratti per lo più di un ingegnoso sistema di approvvigionamento delle casse pubbliche, in un paese dove circa il 50% dei cittadini vive di welfare.

Senza dunque cadere nella tentazione di addentrarsi fin troppo in questioni di merito della legge votata dal parlamento di Montevideo, appare evidente come la legalizzazione di una droga – al pari della sua più ferrea criminalizzazione – non sia una condizione di per sé sufficiente a porre fine ai problemi legati alla tossicodipendenza. Legiferare con un simile intento sarebbe ingenuo e oltremodo utopico. Per analoghe ragioni, tuttavia, quella che ispira la foga proibizionista di Giovanardi appare come un’utopia di segno opposto e una tesi storicamente infondata.

Pur considerando che l’Onorevole si riferisse alla politica di bassa tolleranza in materia di narcotraffico attuata dai governi in sede internazionale a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti del Volstead Act – il proibizionismo sugli alcolici in vigore dal 1919 al 1933 – offrono eloquenti spunti storici sul drammatico fallimento dei tentativi di repressione estrema di comportamenti che, piaccia o no, si diffondono in una società. Piuttosto che aver “salvato il mondo” (sic), il proibizionismo americano degli anni ’20 è universalmente riconosciuto come il principale responsabile dell’ascesa dei più violenti gangster e contrabbandieri della storia del paese. Un bagno di sangue e corruzione che porta la firma di personaggi del calibro di Al Capone, Lucky Luciano, Arnold Rothstein.

Trattandosi di un mercato di contrabbando, nessuno è in grado di determinare con precisione se e in quale misura il consumo di alcolici sia variato negli anni del proibizionismo, ma l’enorme giro d’affari mosso dal racket che gestivano le gang nelle grandi città palesa il fallimento del tentativo del Volstead Act di cambiare il costume degli americani. Quel che si può affermare con certezza, invece, è che la qualità di liquori e distillati – prodotti in capannoni clandestini e diluiti con metodi rudimentali – si ridusse a livelli infimi, con la conseguenza di provocare un drastico aumento delle morti per problemi di salute legati all’alcolismo, come ulcera e cirrosi epatica. Come riportato a pagina 7 di un paper del CATO Institute, al proibizionismo si deve anche un’impennata senza precedenti del tasso di omicidi registrati in tutto il paese. Era il risultato di guerre tra bande, regolamenti di conti, eliminazioni di forze dell’ordine che sapevano fin troppo o che si rifiutavano di collaborare. La corruzione dilagava ovunque: nella giustizia, nelle forze di polizia, nella pubblica amministrazione.

Insomma, l’alcol non è la marijuana, ammonisce Giovanardi. D’accordo, ma da qui a sostenere che il modello che ha fatto degli Stati Uniti il paradiso di ogni gangster abbia salvato il mondo ce ne corre. Evidentemente, l’Onorevole reputa le sue logiche così auto-evidenti da non ritenere opportuno di sostenerle con la stessa onestà intellettuale che pretende dagli antiproibizionisti nell’affermare che un maggiore grado di libertà sortirebbe effetti ben più desiderati rispetto alla repressione.

Daniele Venanzi

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