La Grande Bellezza, Paolo Sorrentino
Che gli italiani trovassero piacere, in qualche modo, nel criticare quel poco di buono che hanno è una cosa – credo – risaputa. Prendete le strade, prendete il sud, prendete la cultura, la storia; prendete tutte quelle cose che fanno di un paese un grande paese. E poi prendete le arti, tutte. In particolare: prendete la settima, il cinema. E affrontate la realtà dei fatti: La Grande Bellezza, turba psichica di qualche critico, è – all’estero – un successo. Non solo per gli European Film Awards, gli Oscar – come qualcuno li definisce ingenuamente – del vecchio continente; ma pure per il Time che, senze mezze misure, davanti comunque ad una rassegna ricca sul suolo statunitense, piazza al secondo posto, tra i migliori film della stagione, l’opera di Sorrentino. Per tutti quei giornali, quelle riviste e quei giornalisti non italiani che si sono stupiti, commossi e divertiti davanti alle immagini firmate, dirette e sceneggiate (a metà) da Paolo Sorrentino. Sorrentino, uno di qui, uno di Napoli: uno che, fin dal suo primo film, ha sempre provato a portare l’Italia in alto, sotto i riflettori: non per i soliti luoghi comuni, triti e ritriti, patinati e un po’ imolpolverati; ma per un modo di fare cinema e intrattenimento nuovo, ricercato e studiato.
La Grande Bellezza, ha scritto qualcuno, è un esercizio di stile. Una cosa povera di contenuti, ricca di scene, troppo lunga, noiosa e barbosa. Una critica alla classe dirigente che non va a fondo, che non incide: che non conquista. A questo qualcuno, viene da rispondere francamente: non hai capito niente. Non hai aspettato prima di parlare; non hai pensato, nemmeno per un istante, di provare a metterti nei panni del regista, dell’attore, dello sceneggiatore. Hai guardato per poco, male, in modo distante e disinteressato, e hai tirato le tue conclusioni. Le tue belle – e vendibili – conclusioni.
Ne La Grande Bellezza c’è la visione di un uomo, Paolo Sorrentino, di un mondo, quello italiano, e di tutte le sue contraddizioni. Della cultura non-cultura, delle serate per pochi; dei trenini che non finiscono mai e che, metafora perfetta di un sistema, girano attorno. Senza né capo, né coda. Di una chiesa che parla più di carne (letteralmente talvolta, interessandosi di cucina) che di fede e spiritualità. Di una città, Roma, che resterà sempre caput mundi, pure se solo della bella vita felliniana. E di un popolo, quello italiano, che dovrebbe tornare a stupirsi, ad appassionarsi, a credere (e non solo nel senso religioso) in se stesso, nel proprio paese, nella propria storia. La Grande Bellezza è un film completo, terribilmente intimo. E a capirlo per primi, più profondamente, sono stati ancora una volta gli altri: quelli non italiani, d’oltre confine, mare ed Alpe. Quelli che hanno premiato Paolo Sorrentino (Miglior Regista, Miglior Film), Toni Servillo (Miglior Attore) e Claudio Travaglioli (Miglior Montaggio) agli European Film Awards.