I miei, per esempio, non ne vogliono proprio sapere di vedermi dietro ad una tastiera a scrivere tutto il giorno. Per loro, come per moltissimi altri genitori, l’importante – alla mia età – è prendersi una beneamatissima laurea, mettere la testa apposto e trovarsi qualcosa (un posto, un lavoro, un’occupazione) che possa farmi (soprav)vivere – e che non debba piacermi per forza. Figuratevi quando gli dico che scrivo di cinema o che vado a questo o a quell’evento; o che, nel sociale, sono attivo – sicuramente più attivo della media dei miei coetanei qui a Napoli. Figuratevi quando gli ho detto che il 16 Novembre c’ero anche io tra quei pochissimi di #fiumeinpiena che hanno organizzato una manifestazione da 100mila persona; e figuratevi quando gli ho detto che Pif, a Napoli, l’ho portato in giro io. La risposta tipo, e nemmeno tanto tipo, è stata: «e quindi?» Come a dire: tutti lo potrebbero fare, che ti credi?
E questo solo dal punto di vista familiare. Con gli editori, con quelli che – in teoria – potrebbero darmi da mangiare, la storia è ancora più difficile. Ringraziando Iddio, o chi per lui, ho trovato chi mi ha dato fiducia e spazio: ho trovato un paio di giornali su cui ho un blog, un altro che mi paga e un altro che mi assiste – secondo le cosiddette regole del gioco – nella terribile impresa di prendere il tesserino da pubblicista. Che – lo ammetto – avrei potuto ottenere molto più facilmente frequentando uno di quei mega-corsi costosissimi a Roma e dintorni, sponsorizzati dall’Ordine e seguiti da tantissime testate. E che, invece, ho preferito ottenere così: sudore e impegno, che i soldi – quei maledetti – non ci stanno.
Perché la storia, solita, trita e ritrita, del “basta la passione” mica è vera. È vero dire che anche la passione serve, che senza la passione diventa molto più difficile ottenere le cose (tutte, senza nessuna distinzione). Ma non è una regola. Non lo è assolutamente. Io, da parte mia, rompo le palle – devo: le fracasso a chi devo intervistare, a chi deve prendersi o anche solo leggersi i miei pezzi; e a quelli che, sfortuna loro e fortuna mia, mi ritrovo ad avere per collaboratori quando organizzo certe cose – certi eventi. Lavoro anche in un cinema, mentre studio e scrivo. Contratto, tutto in ordine: prendo quello che prendo; quello che mi serve – e non basta – per finanziarmi. Ho questa amicizia bellissima coi Jackal, che pure se piccoli, indie e giovani come me, mi ripagano del mio lavoro come addetto stampa; che mi hanno permesso di essere, pure se non ci conosciamo da tantissimo, uno di loro – così, almeno, mi piace pensarla.
E chi lo va a dire in giro quanto sacrificio e quanta costanza servono per ottenere pure in minima parte quello che ho io oggi: dall’esterno, sembra tutto facile. Tutto dovuto, tutto già scritto. E invece. Invece no, invece bisogna impegnarsi ogni santissimo giorno. Col sudore e con pazienza (che io, immagino per carattere, non ho quasi per niente). Torno a casa tardissimo, mi sveglio presto; quelle poche ore disponibili che ho le passo scrivendo o – di nuovo – studiando. E mi capita anche di incontrare amici – amici che mi sembrano appartenere ad una vita fa – che escono e che si divertono, e che mi chiedono: «che stai facendo?» Io li guardo, abbozzo un sorriso e gli rispondo: «ci sto provando. Ci sto provando veramente».