Il precariato è una di quelle cose che difficilmente, col tempo e con l’impegno, riusciremo a scrollarci di dosso. È un girone infernale, l’ennesimo, uno di cui Dante, ai suoi tempi, non tenne minimamente conto. Giovani su giovani, lavoratori a contratto, lavoratori a termine; e lavoratori, chiaramente, a tempo determinato – è una linea talmente sottile che viene difficile persino individuarla, strizzatina d’occhio o no. E a Napoli, se è possibile, le cose vanno anche peggio: perché manca quella cosa fondamentale che si chiama voglia di fare. Attenzione però: non da parte del precario o del disoccupato o di chi, comunque, tiene il coltello puntato alla gola; ma di chi, all’opposto, ha i soldi e che si sente più sicuro a conservarli sotto al cuscino che a investirli. A ragione o a torto.
Precaria, a Napoli, è pure la vita. Parrà paradossale, ma è così. La sanità, qui, non funziona come in qualsiasi altra parte del mondo (e, chiaramente, di Italia). I tagli sono più degli investimenti; le trovate – che trovate non sono in Campania, ma che passano sempre e comunque per furberie di bassa lega – si contano sulle dita di una mano. E ogni giorno ce n’è sempre una nuova: con un nuovo commissario (vedi San Carlo); con una questione più urgente dell’altra (se non sono i trasporti, è la spazzatura); e con un bilancio che fa tentennare il Comune, l’apparato e la burocrazia. E la colpa non è nemmeno del Sindaco o della sua Giunta. È colpa di un sistema intero, di una mentalità che sopravvive da generazioni: quella dell’ansia a tutti i costi, dei debiti che vanno pagati subito o che, al massimo, vanno pagati prossimamente – dalle generazioni future. L’idea di investire, di investire comunque, è un’idea assurda: impensabile. Sono in pochi, tutti indipendenti e (quasi) tutti giovanissimi, a provarci. Gli esempi si contano sulle dita di una mano… di un monco.
Anziché ringiovanire, l’Italia e il Sud intero rischiano di mummificarsi: di perdere quel minimo di dinamismo che a fatica sono riusciti a conservare – grazie alle piccole imprese, e ai progetti di pochi coraggiosi. Renzi non è certamente la risposta ai problemi: è il sintomo di un cambiamento che può ancora essere, ma che comunque, almeno a Napoli, si fatica a intravedere. Pure alla lontana. Per cambiare Napoli, ci vuole prima di tutto un napoletano: e non un napoletano che si lavi la bocca con le promesse, ma che tenga i piedi ben saldi per terra, che parli alla gente come la gente si aspetta di sentirsi parlare. Papale papale, sinceramente. Al di là di qualsiasi assurdo politichese. Che di questi tempi, crisi o non crisi, fa più danni che altro.