La copertina de Gli Sdraiati
Non mi ci è voluto veramente niente (qualche ora?) per leggere il libro di Michele Serra. E non perché non sia valido attenzione. (Che poi io sono veramente l’ultimo che può dire una cosa del genere.) Ma perché è talmente piacevole, talmente scorrevole, che metterci di più – anche solo una mezz’ora in più – sarebbe stato impossibile. Si chiama Gli Sdraiati (Narratori Feltrinelli). Sdraiati che, se ho capito bene, sarebbero i giovani, quelli che passano tutta la loro giornata stravaccati su un divano, iPod, pc e musica accesi (“tutto acceso, niente spento”). In napoletano, invece di sdraiati si potrebbe dire: i cuccati, nel senso che stanno a letto; oppure, e credo che sia anche meglio, ‘e stis (letteralmente, in italiano, stesi). A seconda dei punti di vista, la critica di Serra ai giovani può essere accolta più o meno bene. Dipende: se si capisce che una vera critica non è, ma un’analisi, più o meno fedele, di una generazione (di parte di essa, almeno); o se si lascia spazio solo e soltanto all’orgoglio. Che sarà una brutta bestia ma che, va detto, certe volte serve.
Io, sinceramente, penso di essere a metà: il libro m’è piaciuto, l’ho già detto; alcuni passaggi – vedi quello della Guerra Finale – mi hanno fatto ridere di gusto. Altri – la descrizione di una generazione alla deriva, e la frase-chiave “certo che un mondo dove i vecchi lavorano e i giovani dormono, prima non s’era mai visto” – mi hanno fatto pensare seriamente alla condizione mia e degli altri miei coetanei, che come al solito non possono essere tutti raccolti nello stesso fascio. Ne andrebbe dei migliori e pure, allo stesso tempo, dei peggiori. È vero che rispetto al passato s’è perso qualcosa: questa generazione è la prima che torna ad essere più povera della precedente; questa è una generazione precaria, senza lavoro, bombardata da tanti di quegli input che è difficile anche solo elencarli. Eppure è anche la generazione meno responsabile. È la generazione che deve sentirsi richiamare per colpe che, lo diciamo Serra?, non sono sue.
Ho apprezzato veramente tanto la storia del Colle della Nasca. M’ha ricordato De Filippo. Avete presente, no, Natale in Casa Cupiello? Ecco, la storia del presepe: per quanto De Filippo si sforzi di essere gentile con il figlio, perché il presepe vuole farlo con lui e vuole essere amato per questo, alla fine si incazza comunque e lo minaccia, lo tartassa, gli dice che non capisce niente. In questo passaggio c’è la sintesi del libro di Serra: non è una storia così assurda quella dei giovani contro i vecchi, i primi che vogliono vivere e i secondi che vogliono sopravvivere. Sono due mondi che entrano in constrasto: in appena pochi anni, s’è passati da un estremo all’altro. E i valori, i vecchi valori, si sono persi. E sono stati sostituiti da altri. Se più o meno validi dipende, pure questo, dai punti di vista. Io la vendemmia con mio padre la faccio volentieri.
P.s. Il disegno in copertina di Gipi, e che mi sono permesso di inserire in questo post, è un’altra delle cose che mi hanno conquistato. Ammetto che da lontano, vuoi perché non ci vedo nemmeno tanto bene senza occhiali, l’ho scambiato per un pulcinella. Solo poi, avvicinandomi, ho capito che quelle erano orecchie e che il nero erano i capelli, non una maschera.
P.p.s. Sono curioso di sapere il figlio di Serra adesso che fa. Cioè, proprio a livello di lavoro/studio.