Blog di una liberaleRimandare uccide, vendete Alitalia

Esiste, nel nostro Paese, una pericolosa tendenza a intervenire sui problemi solo quando questi raggiungono la fase estrema. Ciò succede un po’ in tutti gli àmbiti che riguardano lo Stato, dai dec...

Esiste, nel nostro Paese, una pericolosa tendenza a intervenire sui problemi solo quando questi raggiungono la fase estrema. Ciò succede un po’ in tutti gli àmbiti che riguardano lo Stato, dai decreti d’urgenza per risolvere questa o quell’emergenza alle azioni improvvisate per sopperire a questa o quella mancanza. Insomma, una consuetudine diffusa, che comporta però grossi rischi nel medio-lungo periodo. È questo il caso d’Alitalia, azienda parastatale la cui storia comunica appieno il mantra del «rimandare il problema a data da definirsi».

Alitalia, azienda parapubblica, si scontra per la prima volta con le regole del mercato a séguito delle liberalizzazioni di rotte e aeroporti definite dall’Unione Europea, alle quali fecero séguito le privatizzazioni di quasi tutte le compagnie aeree interessate — tranne, ovviamente, Alitalia. La compagnia, convinta d’esser in grado di competere, decise di non privatizzarsi (o, meglio, lo Stato decise di non privatizzarla) e, pur avendo sulla schiena già milioni di debiti, continuò a rimandare un indispensabile intervento su sprechi, inefficienze ed (enormi) errori gestionali, col tacito assenso dei governi in carica.

La situazione precipitò a tal punto che ci si ritrovò di fronte a due soluzioni. Una, realistica, che rispettava le regole del mercato e dell’UE, prevedeva la vendita della società a un altro gruppo (Air France). L’altra — la «pezza» — prevedeva, tra i provvedimenti, un ingenteintervento dello Stato nel capitale dell’azienda, un maldestro tentativo di ristrutturazione che portò il Paese a vedersi inflitte salatissime multe dall’UE per aver infranto le regole che limitano gli aiuti di Stato.

Questa soluzione d’emergenza non fece altro che rimandare — e, in parte, ampliare — il problema. Le società parastatali, proprio per loro forma, non sono quasi mai in grado di competere in un mercato formato da privati. Si tratta — come nel caso d’Alitalia — d’aziende burocratiche, poco innovative, condizionate dal clientelismo politico-economico che necessariamente vige in questo genere di società. Si tratta d’aziende che non sono mai state «abituate» a competere — come se un ciclista fosse aiutato, per qualche anno, da un piccolo motore. Vincerà sicuramente le prime gare; ma, quando dovrà fare i conti con le regole, che vietano il motore, egli si troverà tremendamente svantaggiato, non avendo mai esercitato appieno i propri «muscoli», ossia i propri punti di forza.

A tutt’oggi, Alitalia continua a essere sostenuta direttamente dallo Stato. A poco sono servite le idee di richiedere fondi privati (la famosa «cordata») e di creare una «bad company» dove spostare e «cancellare» i debiti accumulati nei decenni. Durante queste trasformazioni, la famigerata Air France aveva comprato circa il 20% della società, lasciando intendere un futuro d’acquisizione.

Ora, il futuro sembra araboEtihad ha mostrato interesse, e la firma sull’accordo sembra vicina. Questa sarebbe stata l’unica vera soluzione possibile: permettere di vendere l’azienda per avere, in tempi stretti, una nuova società che rispondesse meglio alle esigenze dei nuovi clienti e dei nuovi mercati. E, soprattutto, che permettesse al nostro Stato — e alle nostre tasche — di non sborsare milioni d’euro utili solo a rispondere alle emergenze contingenti senza (come spesso accade) misurare e orientare le proprie policyin una visione di medio-lungo periodo.

Elisa Serafini
(Pubblicato anche su The Fielder)

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