L’anno sta per finire ed è tempo di inventario e buoni propositi. Da New York a Londra si tirano le somme e le testate più serie decomplessate si danno al gioco della top ten, un gioco apparentemente disinvolto ma che riflette bilanci più importanti.
La cultura è una delle tre priorità di Renzi per il 2015. E sappiamo anche perché: la cultura se correttamente sviluppata è un joker per un paese come l’Italia che deve trasformarsi in un’economia competitiva.
Ormai lo sanno tutti, il 2015 per l’Italia è l’anno zero, l’anno dell’Expo universale: una porta sul “futuro”, quel treno già in corsa sul quale perfino la Francia fatica a salire.
La Francia ha riuscito la sua transizione culturale: musei, fondazioni e gallerie tutti mobilitati per il rilancio nazionale. Ma se guardiamo le mostre delle maggiori istituzioni francesi, per ora sono tutte incentrate sugli artisti americani: nomi rigorosamente internazionali da Murakami a Kapoor ma che costituiscono pur sempre incassi americani.
C’è ancora un’autonomia culturale europea?
Anche se non è dichiarata, in Francia l’egemonia americana nelle scelte artistiche dei principali musei e fondazioni adesso è evidente.
E che dire della nuova fondazione Vuitton? Costruita sul suolo pubblico e quindi per metà finanziata con dei soldi pubblici, ma con una programmazione (e un architetto, Franck Gehry) tutta americana. Quando sarà il momento di fare personali di artisti francesi? Dopo è già troppo tardi.
Il patto pubblico/privato (la defiscalizzazione) ha come condizione la valorizzazione della cultura nazionale. Qual è il contributo di Arnault – il magnate diventato ora mecenate e percio’ fiscalmente esentato – all’economia francese?
In quanto uomo d’affari certo è giusto che Arnault esponga gli artisti più allettanti, ma in quanto mecenate agevolato dallo Stato francese non puo’ impunemente continuare a favorire il mercato dell’arte americana senza pensare alle conseguenze sull’economia francese.
La fondazione Vuitton essendo apparentemente privata è libera di imporre gli artisti che vuole sul mercato dell’arte senza un progetto culturale definito. Ma non lo è invece il Pompidou: come Versailles e il Louvre, il Pompidou è un museo pubblico che ha l’obbligo dunque di seguire criteri istituzionali, cioè scientifici, oltre che standard finanziari.
Storia e mercato, meriti e fama sono sempre stati le due facce della stessa medaglia nell’arte. Ma se lo scarto tra i due è grande, significa che c’è un deficit istituzionale.
Da solo il mercato non dice che il valore di Jeff Koons o Damien Hirst è storicamente pari a quello di Penone o Cattelan. Solo la Storia, quando questi artisti ufficiali saranno morti, solo la Storia dirà se questi erano effettivamente gli artisti più importanti o se erano invece secondari. A patto che non si occulti il quadro completo delle tendenze artistiche.
Oggi è il mercato e non l’innovazione a dominare le tendenze artistiche ufficiali. E il mercato è americano, gli artisti più venduti e più cari sono americani o profittano all’economia americana.
Accettando di fare mostre prima agli americani e solo dopo agli artisti corrispondenti locali, i musei europei svalutano l’arte europea.
Accettereste di mangiare in Italia mozzarelle fatte in America? O in Francia di bere un Bordeaux fatto in California? Perché no, a patto di poter fare un confronto e scegliere.
Ma nell’arte l’egemonia americana sta prendendo proporzioni allucinanticon la complicità dei governi europei. Per capirne la gravità, è come imporre agli italiani di comprare la mozzarella fatta in America al doppio del prezzo della mozzarella italiana.
Paradossalmente il ritardo italiano lascia ancora un po’ di speranza di autonomia. Prima di Expo, l’Italia deve ancora decidere qual è la sua identità culturale, su quali competenze e ideali scommettere per competere a livello internazionale.
In realtà, come ho già rilevato nei miei articoli precedenti, il governo italiano ha già deciso di investire sul Nord Italia che è culturalmente rappresentato dall’Arte Povera fondata a Torino, il movimento cioè in grado di giustificare e contestualizzare la storia delle grandi imprese italiane da Torino a Milano a Venezia.
Il problema è che ufficializzando solo il movimento poverista, l’Italia rinuncia al suo ultimo primato culturale (la Pop romana) e alla possibilità di ritrattare il prezzo e la classifica del suo patrimonio e del made in Italy su scala mondiale.
Comunque, almeno secondo questi calcoli, il 2015 sarà l’anno dei grandi bilanci storici – non solo economici – dell’Occidente. L’America dovrà dare le prove storiche della sua egemonia culturale sull’Europa, accettare di rivalutare e pareggiare il prezzo dei suoi grandi artisti con quelli europei o riconoscere di barare.
Anche se l’America non si rimetterà in discussione subito, l’Italia deve giocarsi anche la carta della Pop romana, non solo quella dell’Arte Povera.
Roma, grazie al rifiuto apparentemente insignificante di un gallerista (Plinio De Martiis) negli anni ’60 e forte di un’industria cinematografica all’epoca internazionale (Cinecittà), è l’unico centro culturale d’Europa oggi a poter ridimensionare l’egemonia americana.
L’America sta dominando il mercato dell’arte con scoperte europee mai brevettate. Non a caso la grande retrospettiva Jeff Koons al Pompidou a Parigi sta incontrando ostacoli legali: Koons è già alla seconda accusa di plagio dall’inizio della mostra.
Ma a che serve difendersi a cose fatte? Le speculazioni vanno fatte prima, in modo di pesare sulle decisioni scientifiche dei musei. Privati o pubblici.