E’ nata una nuova stella nel firmamento della Sharing Economy – ovvero il fenomeno commerciale (e sociale) che ha portato al successo società come Airbnb (condivisione di case e stanze), Uber e BlaBlaCar (condivisione di passaggi) ed è stato motore di progetti ancora più particolari, come la condivisione di barche a vela, biciclette, vestiti.
La nuova stella si chiama “Social Eating”, fenomeno nato in Europa e largamente diffusosi, ormai anche in Italia, e rappresenta la declinazione “alimentare” della condivisione di servizi e prodotti. Nel Social Eating, il prodotto di condivisione è il pasto.
I siti di Social Eating permettono infatti di far incontrare “cuochi” amatoriali, e aspiranti commensali. Il principio è semplice: esistono persone che adorano cucinare, e persone che non lo amano affatto, che non hanno tempo di farlo e che non possono permettersi una visita quotidiana al ristorante sotto casa. Da questo l’idea: perché non dividere la spesa (sfruttando una piccola economia di scala) e soprattutto la compagnia con chi condivide gli stessi gusti?
Il Social EATING è esattamente questo: una galassia di siti e app che diventano piattaforme di scambio e condivisione di pranzi, cene e persino colazioni. Pigrissimi single, coppie affamate e curiosi viaggiatori possono consultare decine di “offerte” di pasti, tutti rigorosamente “home made”. Da Martina che cucina legumi e verdure, e offre una pausa pranzo completa €15, alla coppia di architetti che ha viaggiato il mondo e propone cene a tema internazionale nel proprio loft.
Sono 90.000 gli utenti dell’italiano Gnammo, ma le piattaforme sono tantissime: da Eatwith, fondato in Israele al francese VizEat. Un trend in crescita che si inserisce perfettamente nel contesto di sviluppo delle nuove economie. Ma ogni successo ha per natura i propri nemici, che in Italia rispondono al nome di “associazioni di categoria”.
Non esistendo una normativa che regolamenti il servizio, la denuncia delle categorie è che il social EATING possa inserirsi in un contesto di concorrenza “sleale”. Come per gli altri servizi, sembra trattarsi però di prestazioni occasionali e non professionali.
Come l’autista di UberPOP non conoscerà tutte le strade della città a memoria, trattandosi appunto, di un professionista “occasionale”, allo stesso modo il consumatore degli home restaurant probabilmente non si aspetterà un servizio “stellato”. Quello che sembra muovere milioni di persone a richiedere servizi della sharing economy sembra essere il desiderio di vivere esperienze più autentiche e meno commerciali e poter conoscere persone nuove, che condividano gli stessi valori e interessi.
Ristoratori, albergatori, tassisti dovranno mettersi il cuore in pace: i costumi cambiano, i consumi si evolvono. Con la trasparenza dei prezzi, con l’accesso all’informazione di servizi, locali e negozi, il consumatore attua scelte sempre più consapevoli. Quello che le associazioni di categoria capiranno presto è che nessuna legge potrà mai fermare la sharing economy: internet correrà sempre più veloce del legislatore, così come la domanda per nuovi, diversi servizi.