Caro (ipotetico) datore di lavoro,
non mi importa che faccia abbia, quanti soldi ci siano nelle sue tasche nè cosa le piaccia leggere e cosa no. Non mi importa quali siano le sue passioni, se preferisca i film alle serie tv, nè se vorrebbe una bella fetta di torta al posto di un piatto di pasta al forno. Non mi importa se sia sposato e soprattutto ancora meno mi importa se abbia figli.
Quel che mi interessa sapere è invece, nella sua scala di priorità, che posto occupa il fatto che io una mamma lo sia, per di più di una bambina molto piccola.
Per carità, mi metto nei suoi panni, avere figli fa la differenza eccome. E’ giusto chiedere a una donna, in sede di colloquio di lavoro, se ne ha o ne vuole. Da quello si capiscono molte cose.
Per esempio, caro datore di lavoro, lei sicuramente sa meglio di me che se una donna ha uno o, meglio, più figli avrà delle capacità organizzative molto più sviluppate. Saprà pensare in maniera molto veloce, avrà ottime capacità di problem solving e sarà in grado persino di fare più cose nello stesso momento. Sì, ancora più di quanto non riuscisse a fare prima. Avere bambini porta una donna a un livello superiore facendole guadagnare tutte quelle soft skills che vanno tanto di moda oggi.
Mi spiego meglio. Ha presente Super Mario? Ecco, faccia conto che i figli per una donna sono come le monete d’oro per il celebre baffone: più ne prende, più sale di livello.
Perchè, caro datore, quando si ha un figlio tutto cambia. E una donna diventa allo stesso tempo medico, psicologo, insegnante, animatrice e creativa. Per non parlare dei livelli che toccano la motivazione e la combattività: hai mai provato a separare un cucciolo di tigre dalla sua mamma? Ma lei queste cose le saprà già.
Lei capirà allora, caro datore, la mia sorpresa nel leggere l’analisi dei dati Istat del 2011. Sì, lo so che sa di cosa parlo, ne hanno detto tanto pure i giornali, la tv e i social. Però, per cortesia, per una volta mi faccia essere ripetitiva.
Sono circa dieci milioni le donne che nel corso della loro vita, a causa di impegni familiari, per una gravidanza o perché i propri familiari così volevano, hanno rinunciato a lavorare.
Ecco, questo in breve dice l’Istat. Dieci milioni. Ma com’è possibile che così tante donne rinuncino a quel lavoro tanto necessario alla realizzazione dell’essere umano che ci abbiamo persino fondato la nostra Repubblica. Parola di Costituzione Italiana, eh.
Caro datore, mi sorge un dubbio. Non è che lei mi ha chiesto se ho figli, non perchè considera questi una stellina in più nel mio curriculum, ma perchè invece li giudica un limite?
Non è che ora che le ho detto di avere una bambina, i permessi per malattia contano più di quello che io sappia davvero fare?
Non è che ora mi vede, addirittura, come una futura maternità che cammina?
No perchè sa, ho 28 anni, sono nel mio momento di produttività più alto. Perchè è studiato: un essere umano dà il suo apporto maggiore alla società nel periodo che va dai 26 ai 34 anni. Senza contare gli anni spesi per la mia formazione e quelli passati a lavorare “gratis” in uno stage.
Insomma, non vorrei che dopo anni e anni passati a prepararmi per diventare la professionista che sono, ora lei mi dica che non posso lavorare perchè ho contribuito alla crescita della società con un figlio. In fondo, dovrebbe premiare il mio coraggio: in un momento in cui di bambini se ne fanno sempre di meno, in cui 1 famiglia su 4 non riesce ad affrontare le spese impreviste, io e tante altre donne, addirittura decidiamo di avere un figlio. Siamo la speranza che non muore, la tenacia che va avanti nonostante tutto, la voglia di non arrendersi. Ma che figata, no?
Signor datore, se così fosse, sa che parliamo di diritti negati e di sogni morti ammazzati? Perchè se una donna è costretta a nascondere il suo pancione fino al settimo mese per paura, non dico di non essere assunta, ma proprio licenziata, vuol dire che la prossima volta, prima di fare un figlio, ci penserà su.
Se una donna, al ritorno dalla sua maternità viene demansionata e fatta oggetto di mobbing, anche velato, non si uccidono solo la sua autostima e quello che aveva costruito fino a quel momento. No, con loro va a farsi benedire pure un po’ il suo desiderio di avere altri figli.
E una società che non fa più figli è una società che muore. E una società morta non consuma e non sogna. Al massimo pensa a dove passare i pochi anni che gli restano e con chi. Vede che alla fine, le conviene se una sua dipendente non rinuncia al suo posto di lavoro?
Ci pensi bene quando durante il suo prossimo colloquio chiederà a una donna se ha figli o ne vuole. Da come si comporterà in base alla risposta dipende il futuro della società.