Qualche giorno fa ha avuto un enorme risalto mediatico la visita a Roma del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, in udienza dapprima dal Papa, poi dal Premier Renzi e, in ultimo, alla Luiss per un Q&A con gli studenti. Diversi sono stati gli spunti interessanti, tra cui il concetto di impresa sociale rimarcato dallo stesso Zuckerbeg.
Ed è proprio da questo spunto, che mi piacerebbe descrivervi la situazione attuale nel nostro Paese che rimarca un quadro in perenne mutamento.
L’impresa sociale in Italia è stata introdotta diversi anni fa dal Decreto Legislativo n° 155 del 2006. Essa è una qualifica che le organizzazioni no-profit possono assumere senza che cambi la disciplina per esse dettata dalle norme specifiche che le regolano, come, ad esempio, la Legge n° 266 del 1991 per le organizzazioni di volontariato o la Legge n° 381 del 1991 sulle cooperative sociali e purché l’attività dell’ente consista nella produzione o nello scambio dei beni o dei servizi di utilità sociale previsti dal Dlgs 155/2006. L’impresa sociale ha scisso esplicitamente per la prima volta il nesso fra il concetto di impresa e quello di scopo di lucro, per il quale l’attività dell’impresa è finalizzata a generare un utile che andrà all’imprenditore o sarà suddiviso fra i soci.
In Italia, mai come oggi, le imprese che producono beni e servizi di utilità sociale in vista di obiettivi di “interesse generale” sono al centro di un campo di interessi e aspettative caratterizzato da accentuate ambivalenze e mismatch. Da una parte, le imprese sociali vengono riconosciute come un importante attore dell’innovazione sociale, mentre dall’altra, sono considerate una longa manus della Pubblica Amministrazione.
Bisognerebbe, quindi, tornare a investire massicciamente sul no-profit, rafforzando le PMI e le startup di settore, con vocazione prettamente sociale.
Ad oggi, in Italia, poco meno dell’1% delle cooperative sociali concentra quasi il 30% del valore della produzione (pari a 10 miliardi di euro) e circa il 27% del capitale investito (8 miliardi di euro).
Un dato importante per declinare policy che sono alla ricerca di “effetti leva” puntando più su distretti e reti di PMI sociali o su industrie dello stesso comparto.
Lo sviluppo dell’impresa sociale è legato, non solo alla disponibilità di risorse economiche, ma anche al contestuale rafforzamento di un sistema specializzato di accompagnamento (formazione, consulenza) che fino ad oggi è stato in gran parte autoprodotto dalle stesse imprese sociali, attraverso le loro reti di rappresentanza e coordinamento, ma che oggi può essere arricchito da attori attratti dalla progressiva diffusione e consolidamento di questo fenomeno.
L’impresa sociale in Italia vede come protagonista la cooperazione sociale e, in termini più generali, una cultura che fa leva sul welfare mix pubblico-privato a cui corrisponde un altrettanto mix culturale che combina la cultura societaria del no-profit a quella statale. Eppure, anche se spesso in forma ancora embrionale, si manifestano in contesti diversi le stesse esigenze di produrre, attraverso l’azione imprenditoriale, un valore multidimensionale (economico, sociale, ambientale) che sia condiviso da una pluralità di soggetti.
Anche le piattaforme di condivisione (es. sharing economy) sono sempre più in voga, in diversi settori, in Italia. Ciò fa comprendere ancor di più che siamo davanti a fenomeni evolutivi che stanno trasformando, non solo molti settori dell’economia, ma soprattutto la quotidianità delle persone.