La contesa durata mesi ha portato a uno sdoppiamento del Salone del Libro Italiano che si presenterà, quindi, in due versioni quasi contemporanee, torinese e meneghina. Ma come rinnovarne la formula per evitare gli errori del passato? Come dovrebbe essere un Salone del Libro o della Cultura? Abbiamo dato la parola ai diretti interessati, cioè agli editori più attivi sul mercato italiano.
La disputa sul Salone del Libro non si ferma mai
Riguardo alla “delicata” questione del Salone del Libro, negli ultimi mesi si sono succeduti quotidianamente annunci, comunicati, missioni e incontri consultativi, proposte e nuove prese di posizione. Alla fine il risultato è quello ampiamente previsto: ci saranno due fiere a breve distanza temporale. Mettendo definitivamente nel cassetto la proposta del ministro Franceschini di un unico Salone in due piazze, sostenuta anche dall’inedito duo Christillin-Formenton (il presidente de Il Saggiatore) che auspicava due eventi in contemporanea, l’uno di spessore culturale (a Torino), l’altro dedicato agli operatori professionali (a Milano). Ai più non è comunque piaciuto lo spettacolo andato in onda da questa estate e che ha mostrato, anche alla platea internazionale, un settore editoriale diviso e lacerato, che semmai dovrebbe fare fronte comune per reggere alla crisi e contribuire a elaborare una politica della cultura incentivante la lettura, prioritariamente fra i più giovani (riprendendo l’appello di Einaudi pubblicato su La Stampa).
La parola agli editori
In ogni caso, lo scenario è ancora da definire. Nel frattempo, a pochi giorni dalla presentazione della programmazione culturale del Salone sabaudo, può essere utile interpellare i diretti interessati, cioè la case editrici, per appurare il loro posizionamento nella diatriba, ma, prima di tutto, la loro idea di “Salone”.
Ed è ciò che abbiamo fatto, intervistando realtà (oltre 150) fra le più attive del nostro paese, sebbene le più grosse spesso si siano trincerate con un “no comment” o abbiano preferito rimandare le dichiarazioni ufficiali a un successivo stadio di evoluzione della controversia. Molti piccoli-medi editori, non solo nella nostra ricerca, si sono schierati a favore della centralità del Salone torinese e contro la strategia dell’AIE giudicata, in certi casi, “miope”, “poco democratica”, “scorretta”, se non “fallimentare” (le critiche negative, di diverso grado, che noi abbiamo raccolto provengono da Voland, Dedalo, Gruppo Lit, Fandango, Dario Flaccovio, Giuseppe Laterza, Nutrimenti, Gruppo Macro, Massari, Infinito, Robin, La Nuova Frontiera, Clichy, Las Vegas, Graphe.it, Scritturapura, Lina Brun, Caissa, Uno, Empiria, Penne & Papiri, Atmosphere, Yume e Bonfirraro). Ciò premesso, e nonostante gli endorsement di F.I.D.A.R.E. e dell’Odei, non crediamo sia corretto giungere alla conclusione che la piccola e media editoria tifi per Torino; tenuto conto che sono quasi 2mila le case editrici italiane in attività e che anche i più duri contestatori dell’AIE – che, è sempre bene ricordare, annovera fra i suoi soci i dominatori del mercato editoriale italiano, cioè quelle realtà il cui peso economico e politico è pari alla somma di quelli di migliaia di piccoli e medi editori – potrebbero partecipare ugualmente alla nascente fiera di Milano.
Torino rimane una vetrina unica
Fra i contributi che abbiamo raccolto, persino fra alcuni sostanzialmente scontenti, prevale ancora, seppur faticosamente, l’identificazione del Salone del Libro di Torino in unica e imperdibile opportunità di incontrare migliaia di lettori (che a loro volta possono vedere negli occhi i protagonisti della produzione libraria), confrontarsi con operatori professionali e presentare libri che rimangono invisibili nei normali canali di vendita: una vetrina fisica di rilevanza nazionale ancora preziosa, nonostante la graduale digitalizzazione di tutte le nostre attività quotidiane, in primis quelle di ricerca di conoscenza. Una spiegazione parziale, quindi, delle mobilitazioni estive a sostegno della “preservazione” della fiera torinese; cioè di quelle che hanno suscitato lo stupore dello stesso Luca Formenton, secondo il quale i piccoli e gli indie dovrebbero semmai contestare il trattamento che è stato loro riservato negli ultimi 10-15 anni da parte degli organizzatori piemontesi. Ci sarebbe, poi, da aggiungere che non pochi editori apprezzano il format del Book Pride, evento organizzato dall’Odei e che si svolge già a Milano, e ritengono eccessiva, se non inutile, un’altra fiera libraria nel capoluogo lombardo (c’è anche Book City con i suoi 250 espositori).
Nel nostro “campione d’indagine” sono quasi 80 le case editrici sicure di o propense a tornare a Torino (soglia facilmente superabile se aggiungessimo altri federati alle sigle indipendenti), mentre 35 quelle che parteciperebbero anche o esclusivamente alla fiera meneghina: un numero, però, che non dice molto se si considera che i colossi editoriali per i quali si dà scontata la presenza a Milano (e più improbabile quella a Torino) raggruppano molti marchi prestigiosi.
Le critiche al Salone torinese
In realtà, una nuova proposta si attende pure da Torino, per rimediare ai numerosi errori commessi nell’esperienza trentennale del Salone, almeno stando a ciò che ci hanno raccontato gli editori. Difficile trovarne uno che non si lamenti degli elevati costi – a partire dall’affitto dell’area espositiva – che ha comportato la partecipazione alla manifestazione torinese, specialmente nelle ultime edizioni. E che, oltre a scoraggiare la partecipazione dei più piccoli (“altro che fidelizzazione del cliente”) e, quindi, la varietà culturale, non hanno garantito un’offerta di servizi dignitosa: wi-fi inaccessibile, servizi igienici insufficienti (tanto che quelli femminili costringono quasi sempre a lunghe code), prezzi eccessivi per menù di bassa qualità, limiti strutturali dello stesso spazio espositivo (assai rumoroso). Probabilmente, a parte la struttura ospitante, gli unici a guadagnarci dalla kermesse sono quelli di Autogrill, considerato che nemmeno i colossi editoriali recuperano i costi di partecipazione, essendo “costretti a fare, appunto, le cose in grande”: megastand, nutrite squadre di standisti, apparati tecnologici interattivi, gestione dei numerosi eventi e ospiti, distribuzione non stop di gadgets gratuiti, ecc. “Quelli del food&beverage parassitano sui piccoli editori che creano di fatto l’evento fieristico e faticano a coprire le elevate spese di esposizione”, protesta Alberto Bonfirraro. Gli stessi editori reclamano costi più bassi anche per il pubblico: un biglietto d’ingresso gratuito, o quasi, dovrebbe aumentare l’afflusso e incentivare l’acquisto (si potrebbe prevedere che solo chi non ha acquistato libri debba pagare un ticket, all’uscita). Altro punto su cui quasi tutti concordano è l’eccessiva durata dell’evento, specialmente quella giornaliera, a fronte di un affluenza che dopo le ore 20, compreso il week-end, cala di brutto.
Il Salone del Libro ha svilito il Libro?
Sul piano dei contenuti e dell’offerta culturale, abbastanza prevedibile – almeno per chi respira l’aria del Salone da anni – è la diffusa percezione che la fiera sabauda, pur di aumentare la propria attrattività e coinvolgere qualsiasi tipo di pubblico, si sia progressivamente trasformata in un circo mediatico in cui vengono invitati personaggi di fama televisiva che spesso non hanno nulla a che fare col mondo della letteratura (pure gli ultimi Portici di Carta si sono ingrossati includendo stand non strettamente legati all’editoria). Per i più radicali nell’analisi, i libri fanno ormai da contorno a quella che sarebbe diventata una colorata kermesse di popstar della cultura, cantanti o calciatori riciclatisi in scrittori, rappresentanti dell’establishment politico-economico, cuochi, venditori, motivatori, comunicatori, ambulanti, gadgettari, starlette, pletore di giornalisti bisognosi di (ulteriore) visibilità. E, in effetti, gli spazi lasciati vuoti dagli editori vengono ormai sostituiti da stand istituzionali e commerciali. Oltre alla promozione delle attività di Regioni, Stati nazionali, Camere di Commercio, distretti, ambasciate, logge massoniche o forze dell’ordine, sono in aumento esponenziale, infatti, le vetrine e le rivendite commerciali: due edizioni fa era stato allestito, addirittura, un negozio Unieuro.
I più duri in questo tipo di critica si dimostrano Centro Studi Silvio Pellico, capitanato dalla torinesissima Marcovalerio, Infinito e Massari. I primi arrivano a sostenere che il Salone di Torino rappresenta tutto ciò che non dovrebbe essere fatto, perché “frutto di una visione ottusa, provinciale e snobista elaborata dai “buoni” salotti torinesi” e di “una inesistente politica culturale”. Gli altri due ne condannano la deriva affaristica in cui i criteri di qualità sono prevaricati da quelli di vendibilità. Roberto Massari, in particolare, estende la sua critica all’intero sistema cultura italiano “inquinato dalle logiche di profitto a tutti i costi, dalla spettacolarizzazione e dagli interessi politici”: un’operazione di pulizia dovrebbe seguire l’esempio della Fiera di Francoforte dove i libri si possono vendere solo l’ultimo giorno e durante le presentazioni.
Un programma a favore della “bibliodiversità”
“Ovviamente” la piccola-media editoria contesta lo strapotere dei grandi marchi anche all’interno del Salone di Torino (e, quindi, in quello che verrà a Milano) che riflette (in)evitabilmente l’assetto oligopolistico del mercato di riferimento; sino ad affermare che queste manifestazioni sono ormai a “misura di colosso editoriale”. Per gli editori indipendenti il rafforzamento della propria visibilità passerebbe per presentazioni, conferenze, dibattiti che, però, denunciano, alla fiera torinese sono in mano ai più forti: a tutti gli altri restano gli spazi più angusti e una promozione che non attrae nessuno. D’altronde, non c’è bisogno di sostenere la causa di una categoria di editori, basta rimanere nei panni dell’appassionato di libri, per ricordarsi che il valore aggiunto di una grande fiera editoriale dovrebbe essere la varietà culturale, la possibilità di scoprire e trovare risorse difficilmente reperibili nei circuiti di vendita tradizionali. Su questo gli organizzatori dei Saloni, segnatamente quelli torinesi, dovrebbero lavorare, in modo da ri-costruire un rapporto con alcune piccole (grandi) realtà (pensiamo a DeriveApprodi, Eleuthera, Odoya, Ombre Corte, Asterios, Gabrielli, Guerini, Edizioniambiente, Perdisa, Intra Moenia, Bietti, Allemandi, Vallecchi, Liguori, Mursia, Brioschi, Lotta Comunista, SEI, Koinè, Manifestolibri, Kaos, Edizioni Lavoro, Liberilibri, l’altrapagina, Nexus, Sensibili alle Foglie, Baskerville, Edup, O barra O, La Meridiana, La Zisa, Transeuropa, Diabasis, Luigi Pellegrini, Esperia, Il Sirente, Galzerano, Altravista, Bepress, lo stesso Massari o a quelle specializzate sui temi dell’omosessualità come Il Dito e La Luna) che hanno dato tanto all’editoria e alla cultura italiana e che hanno disertato, sin dalle origini o nelle ultime edizioni, l’unico Salone Internazionale del Libro per adesso esistente nel nostro paese. Eppoi ci sarebbe da avvicinare tutta la galassia degli editori digitali che raccoglie progetti promettenti come goWare, Casaleggio, Emma Books, La Case Books, Mamamò o Informant.
Come anticipato, si deve partire dalla riduzione dei costi di esposizione, tant’è che si invocano sovvenzioni (statali) a favore dei piccoli, o prezzi proporzionati al fatturato o all’incasso dell’edizione precedente, e forti sconti agli esordienti.
La risalita torinese
Insomma, Torino, un po’, se la sarebbe cercata. Sono evidenti i limiti (gravi, per alcuni) strutturali e organizzativi del suo Salone, inclusi i salatissimi costi di affitto del Lingotto, di cui può approfittare il nuovo competitor (la nuova gestione torinese sta promettendo almeno una forte scontistica). Anche perché, secondo Davide Giansoldati di DGLine – agenzia che cura la promozione di numerose produzioni librarie – , “la capacità di autocritica degli organizzatori è stata pari a zero”. “Si è preferito raccontare numeri finti – accusa Giansoldati – per dire che siamo in crescita, piuttosto che fermarsi e capire perché invece il format perde gente ogni anno.” A ciò poi si aggiunga – come rimarcato da alcuni intervistati – la scarsa trasparenza gestionale da cui deriverebbero i procedimenti penali di questa estate.
Tuttavia, il Presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino e, nelle successive dichiarazioni, la neo sindaca Chiara Appendino hanno esortato a interpretare la situazione di crisi come un’opportunità di miglioramento e di rilancio.
La rincorsa a Milano (se di rincorsa si tratta) si deve basare su azioni suggerite e invocate dai nostri intervistati, che probabilmente si sarebbero dovute anticipare molte edizioni fa. Il recupero della “bibliodiversità”, affinchè l’esperienza del Salone sia molto più arricchente ed emozionante di una abituale visita a una libreria di catena cittadina, anche grazie alla creazione di percorsi tematici e al coinvolgimento degli altri attori della filiera editoriale, in primis librerie e biblioteche; la sperimentazione di nuove modalità di interazione fra editori, librai e lettori; un vero coinvolgimento degli stessi editori in fase progettuale, come rivendicano da lungo tempo i loro rappresentanti; un ringiovanimento della formula che punti con decisione alla promozione delle opportunità offerte dal web, dall’innovazione digitale-tecnologica, dalla sharing economy in ambito editoriale: non solo per il lancio di start-up del settore, ma per favorire anche l’aggiornamento professionale e avvicinare i giovani ai profili lavorativi più ricercati legati alla commercializzazione, alla promozione e alla distribuzione del prodotto librario (ossia quelli meno creativi); il potenziamento delle attività “Fuori Salone” con un diretto coinvolgimento della cittadinanza, dell’associazionismo e delle istituzioni locali; l’internazionalizzazione dell’evento con un rinnovato coinvolgimento di paesi e editori stranieri. Oltre, alla conferma e, magari, all’ulteriore ampliamento del Bookstock Village di cui la maggior parte è rimasta soddisfatta. Un Salone che si decida, quindi, a rispondere concretamente alle accuse di immobilismo (“non cambia mai nulla, sempre gli stessi stand negli stessi posti, tanta noia”), di promozione dello status quo, invece che dell’innovazione, che gli sono state rivolte da più parti nel periodo recente. Un Salone che – oltre a libreria allargata adibita alla vendita – venga considerato un laboratorio di pensiero in grado di spingere sulla ribalta nazionale grandi temi e questioni, come la promozione della lettura tra le fasce giovanili.
C’è poi chi crede che l’eventuale assenza dei giganti editoriali a Torino potrebbe rappresentare un valore aggiunto. In scia a chi sostiene che un vero Salone della Cultura, al contrario dell’esperienza degli ultimi 15 anni, dovrebbe essere costruito su misura della piccola e media editoria, dato che i grandi hanno già consolidate posizioni di vantaggio sul mercato.
Chissà, la 30esima edizione del Salone del Libro di Torino potrebbe rivelarsi anche la più bella, facendo scompare d’incanto le preoccupazioni, le ansie, le delusioni, le arrabbiature, i malumori, le incertezze di questa estate.
D’altronde, la sensazione è che per gli organizzatori piemontesi forse i rischi maggiori saranno nel 2018: considerato che l’opzione torinese ha incassato la solidarietà e la mobilitazione di un gran numero di editori e garantirà dei costi di partecipazione molto più bassi rispetto al passato, che Milano è all’ “anno zero” e molti editori preferiranno vedere da lontano come funzionerà la prima edizione.
Una proposta precisa
Infine, un buon numero di quelli che abbiamo intervistato – “capitanati” da Libraccio – si è espresso favorevolmente verso l’ipotesi di un prolungamento del Salone torinese, magari all’aperto fuori dal Lingotto, con una o più giornate dedicate esclusivamente al “libro d’occasione”. In modo da poter alleggerirsi di remainders, libri fallati o che altrimenti sarebbero destinati al macero: una piazza in cui potrebbero intervenire anche librai e privati cittadini nelle vesti di venditori, sulla scia dell’esperienza del “Libro Ritrovato”.
Gaetano Farina