MillennialsPoletti e i giovani: meglio darsi al calcio

Il Ministro Poletti con la sua uscita infelice si aggiunge a una torma di politici che ha usato il calcio come riferimento o come luogo di metafore politiche, dalla celebre “discesa in campo” di Si...

Il Ministro Poletti con la sua uscita infelice si aggiunge a una torma di politici che ha usato il calcio come riferimento o come luogo di metafore politiche, dalla celebre “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, a espressioni come: “la partita rimane aperta”, “è stato come perdere ai rigori” o “mangeremo il panettone”; oggi, a parere di chi scrive, il calcio è addirittura diventato un perfetto oracolo di quello che succederà tra qualche anno. Meglio rinunciare a sofisticate proposte politiche o analisi macroenomiche: diamoci al calcio per capire che cosa succederà al nostro Paese. Ebbene, tra una decina di anni l’Italia, se non ci saranno azioni correttive, non avrà più società competitive su scala globale e le migliori rimaste saranno di proprietà straniera, probabilmente tedesca, cinese, o emiratina. E agli italiani più bravi non converrà rimanere in patria, con stipendi bassi e scarse possibilità di carriera. Vivremo in un paese di provincia, con ambizioni limitate, una qualità lentamente calante della vita. Oggi succede al calcio, dove le nostre squadre non sono più in grado di vincere, e per vedere belle partite conviene seguire la Champions League o altri campionati. Le cause di auto-distruzione sono le stesse, vediamole.

La mancanza di giovani

Le squadre italiane non investono milioni nei settori giovanili, diversamente dagli spagnoli e dai tedeschi. Chi seguiva un po’ il calcio negli anni 90 ricorderà la nostra Under 21, vincitrice di cinque Europei (tra il 1992 e il 2004), vivaio di una nazionale maggiore fortissima, che, ai Mondiali, vantò un terzo posto nel 1990, un secondo nel 1994, la vittoria nel 2006, oltre a un secondo posto agli Europei del 2000. La Germania, in seguito ad alcuni insuccessi, compresa la sconfitta in semifinale con l’Italia in casa, nel 2006, ha investito molto sui giovani, con una strategia che l’ha riportata campione del mondo. Oggi, da noi, il 10% degli under 16 è di nazionalità straniera. Il legame tra le primavere e le prime squadre è scarso, perché da noi si preferisce puntare sul talento già abbondantemente affermato, per non rischiare troppo. Nel frattempo, i giovani italiani tendono a rimanere giovani promesse un po’ troppo a lungo, tipo gli scrittori…

Le squadre di serie A spendono nel settore giovanile 20 milioni, quanto il Barcellona da solo. Qualcosa dovrebbe essere cambiato con il Governo Renzi, che con l’ultima finanziaria ha garantito 120 milioni di euro della FIGC per le giovanili. Vedremo la stessa attenzione prima o poi per i giovani italiani? In proporzione, servirebbe qualche miliardo di euro.

Gli stadi – infrastrutture scadenti

Lo stadio di proprietà pare sia diventato una necessità, come porti più grandi, treni alta velocità, hub aeroportuali, tanto per spiegare la metafora. Perché lo stadio di proprietà può produrre sicuramente più reddito, perché è nuovo e costruito al meglio (età media dei nostri stadi? 70 anni). Il confronto con le massime serie straniere è impietoso: in serie A ci sono 3 stadi di proprietà, in Premier League 16, in Bundesliga 10, 7 in Spagna. Gli stadi italiani sono anche poco frequentati (pieni al 51% della capacità). Sarà per il livello più basso delle partite, sarà perché la pay tv ci ha reso pigri, oppure conterà pure la sicurezza?

Sicurezza?

Negli stadi italiani, e nei loro dintorni, si può morire per una coltellata, per una bomba carta, durante gli scontri tra tifoserie o contro le forze di pubblica sicurezza: 22 morti in 50 anni. Un valido motivo per non andarci coi bambini e una causa dello scarso riempimento medio dei nostri stadi. Nessun governo è stato in grado di trovare una soluzione definitiva: forse è funzionale a qualcuno la presenza di criminalità organizzata nelle curve?

Legalità e management

Una triste verità sul calcio italiano, che non si può dire ad alta voce, riguarda le ragioni per cui diversi imprenditori diventano presidenti di squadre da cui ricavano pochissimi guadagni monetari: entrare nei salotti buoni, evadere il fisco o ripulire il denaro. Nel primo caso, negli anni d’oro, c’erano in Serie A alcuni degli imprenditori più importanti: Agnelli, Moratti, Berlusconi; prestare o scambiare un giocatore producendo un guadagno al potente di turno è un buon modo di conquistarsi favori senza muovere mazzette. In merito al riciclaggio, il valore dei calciatori non è oggettivo, e consente modalità di sovra-fatturazione per ripulire o far uscire del denaro dirigendolo a paradisi fiscali. Ma è anche facile riciclare pagando cash i biglietti allo stadio, oppure ristrutturando le infrastrutture sportive con società connesse ai proprietari. Con le sponsorizzazioni nelle categorie Dilettanti e Promozione si evade il fisco. In sintesi, girano molti soldi, i valori sono arbitrari ed è un mercato internazionale.

Paese instabile e privo di coraggio

“Che vengano gli stranieri!” Avrete pensato. Seguiremo negli anni i rapporti tra lo statunitense James Pallotta e la Sindaca di Roma: pare che il nuovo stadio della Roma si farà, dopo qualche settimana di “melina” (per stare in tema). Ancora da capire se la città ci abbia guadagnato. Non abbiamo comunque alternative: mancano i grandi imprenditori nostrani per investire nel rilancio del calcio italiano. Che succederà allora? Verranno comprate le grandi squadre, hanno cominciato i cinesi con Inter e Milan (pur con notevoli e imbarazzanti ritardi), gli unici che potevano permettersi di comprare due squadre tra le più note e titolate al mondo. Le altre squadre italiane rispecchiano la frammentazione del Belpaese: troppe, divise, con storie di risultati deludenti, stadi minuscoli e pochi tifosi. La provincia sonnecchiante. Chi mai potrebbe avere interesse a comprarsi l’Empoli, con tutto il rispetto, per promuovere la propria immagine nel mondo? A malapena sa un italiano dove si trovi. Puntando a città più grandi, ci si scontra coi tifosi. Chi sarebbe così pazzo da avere a che fare con le tifoserie napoletane, genoane, atalantine?

Da qui si scappa facilmente… senza rimpiazzi

Alcuni dei migliori allenatori hanno giustamente cercato fortuna altrove. In Premier League, nelle nazionali. Ora anche parecchi giocatori di talento sono sbarcati in campionati stranieri, penso a un Verratti a Parigi (ma forse torna). Normale circolazione di talenti? Purtroppo no, perché il saldo è in costante calo. Un tempo la serie A attirava i migliori giocatori del mondo: abbiamo avuto Maradona, Platini, Zidane, Van Basten, Ronaldo. Ora i palloni d’oro giocano stabilmente fuori dai nostri stadi. L’ultimo a giocare in Italia è stato Kaka nel 2007. Pogba, tra le grandi promesse, è stato comprato da un club più ricco di mezzi dei nostri. Il divario non può che aumentare. Vi ricorda forse la fuga dei cervelli? Inquietante, vero.

Ma risorgeremo come nel 2006?

Chissà, speriamo. Gli italiani devono trovarsi in condizioni terribili per riconquistare forza e coordinamento. Ma potrebbe non essere facile, perché viviamo divisi nelle nostre tifoserie e siamo paranoici nei confronti degli altri. Dietro ogni decisione arbitrale c’è un complotto, dietro ogni svista una strategia per favorire il potente di turno. Il problema, come ha dimostrato la vicenda di Moggi, è che talvolta il ladrocinio c’è davvero stato: come si riesce a capire se oggi il calcio è davvero pulito? Come faremo a fidarci del prossimo Presidente del Consiglio se si allea con i nemici di sempre? Nel dubbio, noi giovani continuiamo a rimanere diffidenti nei confronti di chi prova a impegnarsi…

Andrea Danielli

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