In questo periodo presso la Statale di Milano vi sono numerose e forti proteste contro l’introduzione del numero chiuso presso le facoltà di Lettere e Filosofia tradizionalmente aperte a tutti e prive di qualunque barriera all’accesso. Da una parte vi è il Rettore, favorevole a limitare gli ingressi, e dall’altra alcune rappresentanze degli studenti che considerano antidemocratico un tetto massimo agli iscritti, ritenendolo lesivo del diritto allo studio.
Questa vicenda mi tocca particolarmente non solo in quanto studente universitario del medesimo ateneo, ma soprattutto perché la stessa situazione si è verificata nella mia facoltà, quella di Scienze Politiche Economiche e Sociali, un paio di anni fa. Quando mi iscrissi al corso di laurea triennale non era previsto alcuno sbarramento, pagai la mia tassa e d’ufficio fui ammesso. Come in tutte le università del mondo vi erano studenti bravi e motivati, altri che per un motivo o per l’altro avevano alcune difficoltà lungo il percorso, ma che erano determinati ad ultimarlo ed infine una quota significativa di studenti che non mostravano alcun interesse allo studio e che si trovavano lì perché respinti da altre facoltà o anche perché costretti dalla famiglia ad iscriversi ad un corso di laurea. Naturalmente il numero di persone superava spesso e volentieri le capacità delle strutture disponibili ed era abbastanza facile trovarsi per terra (o in corridoio) a fare lezione se non si era arrivati con largo anticipo. Negli anni successivi è stato introdotto il numero programmato in tutti i corsi di laurea triennali e la situazione è indubbiamente migliorata: il rapporto studenti/insegnanti è diminuito e le aule ospitano un numero adeguato di studenti. Stando ai racconti di diversi amici che frequentano Lettere o Filosofia la situazione nella loro facoltà è decisamente peggiore, sia per la grande varietà dei corsi offerti sia perché si tratta della tipica scelta di ripiego per chi non è stato ammesso dove avrebbe voluto (da medicina ad economia).
Purtroppo molto spesso in Italia, a causa di un’ideologia radicata che vede l’università pubblica come un luogo aperto a tutti sempre e comunque, non appena si nominano le parole “numero chiuso” o si propone una maggiore selettività all’interno delle università si viene immediatamente accusati di classismo e di attitudini elitarie antidemocratiche e si tirano in ballo il diritto all’istruzione e lo scarso numero dei laureati italiani (siamo ultimi in UE per percentuale di popolazione in possesso di una laurea). Partendo dalla seconda critica, bisogna tenere presente che se il numero di laureati è così esiguo, ciò è dovuto anche ad un impressionante tasso di abbandono scolastico: secondo il rapporto 2016 dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) soltanto il 58% degli studenti risulta laureato ad 11 anni di distanza dall’iscrizione ed oltre il 38% degli studenti abbandona gli studi. Ora, vi possono essere molti motivi per cui una persona si trova a non laurearsi in corso o a dover lasciare l’università, ma in 11 anni si potrebbero addirittura fare due lauree magistrali a ciclo unico, in un tale lasso di tempo chiunque non abbia lasciato gli studi dovrebbe essersi laureato da tempo. Inoltre ogni studente che abbandona gli studi è una persona su cui la collettività ha investito risorse (le tasse universitarie coprono solo una minima parte dei costi sostenuti dall’istituzione universitaria) che non portano tendenzialmente alcun frutto, si tratta a tutti gli effetti di uno spreco. Diversa è la questione dei fuori corso e dei vari universitari “parcheggiati” dalla famiglia presso un corso di laurea: se non frequentano spesso non sono neppure un costo e le loro tasse maggiori forniscono entrate all’ateneo. Il numero dei fuori corso ed il tasso di abbandono (altissimo proprio a Lettere e Filosofia) sono però parametri importanti quando si tratta di esprimere valutazioni su un’università da parte del MIUR per distribuire finanziamenti ed anche nelle varie classifiche degli atenei che aspiranti studenti e professori consultano prima di scegliere. Avere molti studenti fuori corso penalizza fortemente un’università sia dal punto economico che del prestigio, rendendola meno accattivante per i migliori studenti e facendo propendere i professori più capaci verso altre sedi, et voilà ecco la via del declino.
Più complessa risulta la questione del diritto allo studio. Certo, in Italia si tratta di un diritto fondamentale e si deve garantire, oltre ai livelli di istruzione fondamentali, anche la possibilità per tutti i meritevoli di accedere a quelli più elevati, indipendentemente dalla loro condizione economica. Diritto allo studio vuol dire però anche offrire a chi è iscritto all’università un ambiente adeguato alla sua formazione, vuol dire mettergli a disposizione un’istruzione di alto livello e tutti gli strumenti necessari affinché al termine del percorso di studi sia in posesso di tutte le conoscenze e competenze necessarie a trovare un impiego consono nel ramo che si è scelto. Non si può obiettivamente pretendere di ricevere un insegnamento di grande qualità se si frequentano lezioni in aule sovraffollate e soffocanti e in cui l’interazione col professore (cosa ben diversa da ascoltare e prendere appunti), magari uno solo per 250 studenti, si limita alla sola prova d’esame. In questo modo non si formano certo laureati capaci ed appetibili, ma persone che sono arrivate con disagio e fatica alla fine degli studi e per i quali magari la laurea non rappresenta il grande traguardo, ma solo la fine di un calvario mal sopportato. Sarebbe bello poter far studiare tutti coloro che lo desiderano, ma purtroppo con la generale carenza di risorse, professori e spazi adeguati esiste un limite massimo di studenti oltre il quale ogni corso di laurea non è più in grado di dare un’istruzione accettabile per motivi puramente strutturali e logistici. Risulta quindi evidente la necessità di riformare l’università pubblica italiana in modo maggiormente selettivo ed il numero chiuso (o comunque un test iniziale di sbarramento) appare forse l’alternativa preferibile rispetto ad un modello francese o tedesco. Con l’introduzione del numero chiuso inoltre si permetterebbe una migliore distribuzione degli studenti nei poli universitari italiani, spostandoli dalle università sovrappopolate a quelle con meno iscritti Gli studenti che non riescono ad accedere ad alcuni atenei opteranno per altri che invece sono interessati ad aumentare i propri iscritti e a svilupparsi, purché siano in grado di fornire agli studenti anche alloggi a prezzi sostenibili. Un esempio tipicamente lombardo: con il numero chiuso a Lettere in Statale aumenterebbero gli iscritti alla medesima facoltà di Bergamo, università in espansione che soffre la vicinanza di Milano.
Gli studenti francesi (escluse le università con barriere) sono liberi di iscriversi al primo anno senza alcuno sbarramento, ma se al termine del primo anno accademico non risultano aver sostenuto una certa quota di esami non possono continuare gli studi. Il problema principale di questo sistema, oltre al fatto che può capitare a tutti di trovarsi in difficoltà all’inizio del percorso universitario, risiede nell’assoluta impossibilità di prevedere un numero di ipotetici iscritti e dunque di gestire le strutture: immaginate la folla biblica che tenterebbe il primo anno di medicina se non ci fosse il test. In Germania invece l’accesso all’istruzione universitaria è tendenzialmente limitato a chi ha frequentato una sola categoria di superiori (assimilabile al nostro liceo). La scelta della scuola superiore non dipende però dalla volontà dello studente, ma dal suo profitto scolastico precedente. In pratica se a 11 anni non sei tra i migliori della classe, per qualunque motivo, puoi scordarti di fare l’università. Si tratta di un metodo troppo drastico e che rischia di far pesare per sempre su una persona la sua situazione da bambino. Spezzando una lancia a favore della Germania va però detto che le scuole professionalizzanti, cioè tutte quelle che non permettono (a meno di alcune rare integrazioni) l’accesso all’università, formano comunque futuri lavoratori altamente qualificati e che in diversi casi arrivano a guadagnare quanto i laureati. Mentre in Italia una famiglia si considera “realizzata” soltanto se i figli studiano all’università, per la cultura tedesca non è affatto vergognoso o disdicevole avere figli con un diploma tecnico diventati subito lavoratori specializzati. Di conseguenza le scuole che li formano non soffrono della stessa scarsa considerazione in cui vengono tenute da noi, con tutto ciò che ne comporta in termini di offerta formativa e di qualità dell’insegnamento.
Se vogliamo dare un futuro migliore ai giovani e giovanissimi italiani è indispensabile dare loro un’università che sia capace di fornire ai laureati un’istruzione adeguata in un ambiente adatto ed il numero chiuso è drasticamente necessario nell’attuale situazione priva di risorse.
Alberto Rizzi