Emerge spesso nei dibattiti sulla riallocazione intergenerazionale delle risorse un’immagine ideologizzata dei cosiddetti diritti acquisiti. I difensori dello status quo ne brandiscono l’effige quasi fossero santini con cui esorcizzare ogni minaccia di cambiamento. Coloro che lamentano l’iniquità del sistema chiedono a gran voce la loro cancellazione, lamentando l’incapacità del diritto (o il sonno dei giuristi…) di far fronte alla realtà oggettiva del mutato contesto socio-economico.
A me pare che entrambe le posizioni scontino una visione deformata del fenomeno, perché di fatto finiscono col ridurre lo spazio di manovra di chi esercita il potere politico all’alternativa secca tra il pedissequo mantenimento di posizioni di vantaggio divenute ormai odiosi privilegi e la negazione di qualsiasi meritevolezza di tutela del legittimo affidamento nella stabilità e prevedibilità delle scelte del legislatore.
Questa radicalizzazione del dibattito non giova alla causa di chi denuncia la necessità del cambiamento. Rischia anzi di diventare – nella sua robespierriana assolutezza – persino controproducente, perché si espone alla facile critica di chi (giustamente) osserva che senza certezza non vi può essere alcun diritto. Una volta ottenuta l’agognata riallocazione delle risorse questa sarebbe sostanzialmente inutile. Essa, infatti, nascerebbe già esposta all’arbitrio della politica, che potrebbe in qualsiasi momento togliere ciò che in un primo momento ha dato. Nella prospettiva dei titolari dei diritti acquisiti, invece, questa radicalizzazione può risultare strumentale a un’utile (perché paralizzante) disinformazione.
E’ bene allora ricondurre il discorso sui diritti acquisiti all’interno del sistema giuridico, per scoprire come amplissimi siano in realtà gli spazi di manovra che la Costituzione riconosce al legislatore che davvero si voglia far carico dell’improcrastinabile perequazione intergenerazionale attraverso una riponderazione delle posizioni di vantaggio già attribuite. Lasciando da parte il problema della delimitazione stessa del concetto di diritto acquisito, tutt’altro che scontata e su cui molto si potrebbe dire, ci si intende occupare in questa sede della rimodulazione nel tempo di prestazioni spettanti nell’ambito di rapporti di durata.
Risale a pochi giorni fa la pubblicazione di un’interessante sentenza della Corte costituzionale (la n. 124 del 2017, consultabile sul sito della Corte) con cui è stata esaminata la legittimità costituzionale di norme che hanno posto un tetto massimo i) ai trattamenti retributivi nel settore pubblico e ii) al cumulo tra questi ultimi e i trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche (ivi compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive). Per semplificare, la legge di cui si sospettava l’incostituzionalità ha fissato un tetto massimo alle retribuzioni dei dipendenti pubblici e ha previsto che alle persone già titolari di pensioni, che al contempo svolgessero attività lavorative, le retribuzioni fossero ridotte (e financo azzerate) fino alla concorrenza col limite medesimo. Il tetto massimo è attualmente di 240 mila euro annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.
Si tratta di norme che hanno trovato applicazione immediata nei confronti di tutti i funzionari pubblici, compresi quelli che erano già in servizio al momento della loro entrata in vigore. La conseguenza pratica è stata la drastica riduzione, da un mese all’altro, dei redditi da lavoro percepiti da funzionari di livello apicale (consiglieri della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, ma anche alti magistrati che si trovavano a svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli del normale esercizio della funzione giurisdizionale). Redditi che sono stati in alcuni casi dimezzati, in altri azzerati, in ragione della contemporanea titolarità in capo agli interessati di altri trattamenti retributivi o previdenziali.
La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione a diversi parametri costituzionali. Innanzitutto ha sottolineato che la disciplina del limite massimo si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente. Il limite delle risorse disponibili, dice la Corte, vincola il legislatore a scelte preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, tra i quali spiccano non solo il diritto dei funzionari a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e a un’adeguata tutela previdenziale, ma anche la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro, in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano. In questo contesto, il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nel bilanciare i diversi valori coinvolti, purché la disciplina che pone un tetto alle retribuzioni non sia manifestamente irragionevole.
Ma quali sono i criteri per determinare se una disciplina di questo tipo sia o meno manifestamente irragionevole? Anzitutto, occorre valutare quali siano le finalità perseguite. Non è irragionevole che, in presenza di risorse limitate, il legislatore ponga in essere misure di contenimento e di complessiva razionalizzazione della spesa pubblica. In questo contesto, ad esempio, la circostanza che la disciplina in esame destini le risorse derivanti dalla sua applicazione al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato è indice, secondo la Corte, della meritevolezza di tutela degli interessi generali perseguiti dal legislatore.
In secondo luogo, l’intervento del legislatore non può essere discriminatorio. Nel caso di specie la misura di razionalizzazione va a colpire una larghissima platea di apparati amministrativi. Il limite retributivo ha quindi valenza generale per l’intero comparto pubblico. Ancora, la misura del tetto non può essere di per sé inadeguata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Il tetto retributivo in esame è individuato in un parametro fisso (i 240 mila euro di cui sopra), corrispondente agli emolumenti riconosciuti al primo presidente della Corte di cassazione. La circostanza che la misura sia ancorata al trattamento retributivo di una delle cariche pubbliche di maggior prestigio scongiura, secondo la Corte, il rischio che gli emolumenti complessivamente ricevuti siano tali da svilire l’apporto professionale di figure altamente qualificate.
La lezione che si ricava dalla sentenza è che i trattamenti retributivi e quelli previdenziali, così come qualsiasi altra prestazione attribuita nell’ambito di un rapporto di durata, ben possono essere oggetto di una rivalutazione ponderata degli effetti di lungo periodo che producono su altri interessi generali. In un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, spetta al legislatore elaborare soluzioni diverse e modulare le posizioni di vantaggio anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa e di riallocazione delle risorse in favore delle nuove generazioni.
Il diritto offre gli strumenti per farlo e per farlo in maniera incisiva ed efficace. Spetta alla politica prendere la decisione di attivarli.
Laura Gertaro