Lavori presso un’istituzione prestigiosa e sei decentemente retribuito. Stai pensando di comprarti una macchina e di cambiare casa con la donna che ami stabilmente da due anni. Ti godi le vacanze con dei bei viaggi, ami nel tempo libero i ristoranti, le mostre, i libri e la musica “colta”. Benvenuto nel ritratto quasi perfetto del borghese. A 35 anni è successo l’irreparabile.
Ora che il mio lavoro mi piace, mi dà soddisfazioni ed è riconosciuto, sento su di me una grande responsabilità: mandare a rotoli tutto questo. Finché potevo scusarmi con me stesso (“non ho scelto questo lavoro, ma mi dà da mangiare onestamente”), finché la realizzazione era proiettata in un futuro imprecisato, del tipo “ho una start-up, grandi prospettive”, la responsabilità era posticipata. Il mondo poteva cambiare, in modo imprevedibile, come è pure successo un paio di volte.
Ho scelto di rimanere a Milano, al momento, e di investire sulla mia formazione: potrebbe anche andare male. Non ho piani B. A lungo i sogni mi hanno permesso di sacrificarmi su diversi fronti, con non poca fatica personale e al contempo varie ipotetiche scialuppe di salvataggio: c’era il piano B, il C, il D. Ora i fronti sono pochi, non posso diversificare il rischio del mio investimento su me stesso: ho deciso in due direzioni, e so bene che una è più concreta dell’altra. A fianco mi passa qualche piccola opportunità, qualche momento di malinconia perché non riesco a fare tutto ciò che amo. Non ci sono piani B perché siamo in due, e mi piacerebbe che domani fossimo in tre, perché ho esperienza di che cosa significhi andare via dall’Italia e come siano le altre città italiane. Qualcosa è cambiato rispetto a pochi mesi fa, e lo sento.
Ora mi domando, è una sensazione che sto provando solo io oppure questo momento, prima o poi, arriva per tutti? Quella sensazione di definitivo, di tangibile, unita alla volontà di assumersi le proprie responsabilità fino in fondo, con tutto il brivido e l’ansia di poter sbagliare. C’ho messo 35 anni e mi domando: quanti non ci riescono mai, tra sindrome di peter pan e narcisismo? Quanti allontanano il più possibile il momento in cui dovranno ammettere a se stessi di esser dentro al 100% nella propria vita, senza vie di fuga, qui e ora? Perché molti potrebbero pure rispondersi: sono in una vita di merda, e me la devo tenere.
L’allontanamento di questo momento potrebbe essere il marchio di fabbrica di una generazione intera. Siamo cresciuti in un mondo di opportunità di realizzazione vastissimo, almeno fino al 2006. Abbiamo potuto sperimentare passioni diverse perché bastava comprare un libro di fisica o biologia per appassionarsi, fare una vacanza lavorativa, degli stage, spostarsi in altri paesi e continenti, fare master e corsi e concorsi e chi più ne ha, più ne metta. I nostri genitori non hanno avuto queste chances: raramente i loro genitori hanno pensato di valutare e valorizzare le loro inclinazioni, la mobilità era al più Sud-Nord e le opzioni erano pochissime.
Per lunghi anni, tra ‘800 e ‘900, la maggioranza della popolazione aveva da scegliere tra un lavoro faticoso nei campi e uno faticoso nelle fabbriche; poi l’odiato libero mercato ha prodotto un mondo del lavoro diverso, meno pesante, più di testa, e creato molto benessere. Noi abbiamo potuto sognare di diventare filosofi, registi, romanzieri e poi la vita ha scelto altro: bancari, programmatori, esperti di comunicazione. Rispetto a zappare la terra il nostro lavoro è una meraviglia, rispetto ai nostri sogni, una prigione da cui fuggire. Quella permanente tensione verso la fuga ci ha aiutato a farci sentire diversi da tutti gli altri, a non sentirci troppo invischiati in un sistema che ci ha negato crudelmente il nostro sogno. Per anni abbiamo vissuto di critica, ribellione, con noi c’era infatti una vasta comunità di insoddisfatti per lo più resi precari, con cui cui condividere la speranza di un mondo migliore (per noi, chiaro) e forse irrealizzabile.
Il mondo del lavoro è poi solo l’aspetto più visibile di questa fuga dalle responsabilità di essere noi stessi; i giovani hanno anche relazioni passeggere, non pochi sono singles, e fanno figli sempre più tardi: anche nelle relazioni assumersi la responsabilità di vivere con la stessa persona pesa come un macigno – ed è meglio pensare che l’anima gemella esista e possiamo andare a cercarla nei cinque continenti piuttosto che accettare che sia la persona che dorme con noi, sclera per ragioni incomprensibili, ha cento difetti che nell’ideale non esistono. Ed è forse la persona che riesce meglio a renderci felici.
In conclusione, l’impressione che abbiamo avuto a lungo di poter vivere 100 vite è in buona parte finzione; accettarlo potrebbe avere una conseguenza molto positiva per tutti: un maggior impegno politico, perché finalmente inizieremmo a prenderci cura del paese in cui viviamo e in cui vivremo ancora a lungo.