Il cambiamento non deve riguardare solo i semi-vincitori, ma anche tutti coloro che si richiamano alla democrazia pensante
I partiti che hanno elettorati a due cifre sono quasi tutti paralizzati da tesi contrapposte al proprio interno, ognuno di essi essendo dunque un po’ di destra e un po’ di sinistra sui temi principali, ciò che la DC e il PC furono negli anni della prima Repubblica (conservatori e riformisti nella DC, militanti di lotta e di governo nel PCI).
I piccoli partiti, i piccoli movimenti, le iniziative politiche che una volta si chiamavano “di opinione” (Marco Pannella li chiamava “il sale della terra”) e alcuni dei quali oggi potrebbero essere chiamati di “democrazia pensante”, dovrebbero invece avere la forza non di accomodarsi quietamente nella pancia dei partiti maggiori contenti degli strapuntini riservati loro (questo sembra il destino – vorrei sbagliarmi – imboccato da “Più Europa”), ma essere liberi di generare tesi che facciano tendenza; liberi di guardare all’evoluzione della domanda di politica che c’è nel cambiamento sociale non accontentandosi della domanda destruens ma cercando anche quella costruens [1]; liberi di non accontentarsi della corrispondenza di certe parole d’ordine rispetto ai luoghi comuni della mediatizzazione della politica ma alla ricerca anche di proposte fuori dalle regole del “far notizia”.
Sento questa esigenza per esempio nella ripresa di qualche energia e di qualche storica responsabilità che sta di nuovo circolando nelle culture liberaldemocratiche e liberalsocialiste, che non sono “morte” secondo la moda funeraria di certa saggistica[2], in cui il rimescolamento di opinioni è da sempre metodo. E provo ad esprimere qualche spunto in questi giorni di bonaccia e di attesa, cercando di rappresentare più chi pensa alla politica come esercizio civile e culturale permanente “di base” rispetto ai quadri dei maggiori partiti che si sentono ora, stremati dalla campagna, paghi di aspettar di vedere se i loro campioni mandati sul ring saranno vincitori o vinti.
Dopo il 4 marzo – quindi proviamo a dire “nel cantiere di un auspicio di terza Repubblica”, che comprende anche le consultazioni al Quirinale in corso – ci sono cose che caratterizzano l’ambigua discontinuità a cui si è riferito ieri Giuseppe De Rita sul Corriere[3]. Qualche riferimento facendo leva anche su elementi del dibattito recente.
- La prima cosa è che la prevalenza del proporzionale nel sistema elettorale ha costruito un Parlamento non del tutto prefigurato politicamente. Cioè non distribuibile secondo uno schema prefissato in una sinistra, in un centro e in una destra in cui non solo far sedere gli eletti ma in cui anche dar corpo “per naturali contiguità” alle possibili maggioranze di governo. Ciò significa – e questo è un elemento di discontinuità – che vi è un potenziale maggior peso del Parlamento nel fabbricare politica, rispetto al peso che quell’istituzione aveva progressivamente perso nel tempo a vantaggio dei partiti. Per “costruire politica” serve mettere sul tavolo non quattro generici titoli (come ha fatto “d’ufficio” il vertice del PD), ma quattro realistiche soluzioni (che si sono sentite magari per bocca di un PD più “studioso”, ovvero “sperimentale”, da Calenda a Gozi in area liberal e financo al più solitario Barca che viene da un vero laboratorio sulle “disuguaglianze”), cercando di vedere se esse formano aggregazioni, anche imprevedibili. E cercando di far saltare l’idea di una “opposizione infantile” quella che si sbandiera emotivamente dopo aver preso i gol dagli avversari. Poi se quelle aggregazioni non avranno i numeri della fiducia si può anche andare all’opposizione, ma con la forza di un progetto che ha già alleanze nella società per rimontare. “Fabbricare politica” è anche stile e qualità di formazione dei gruppi dirigenti. Come Ernesto Galli della Loggia ha scritto nei giorni scorsi: “Ai leader di un partito di sinistra una base personale adeguata di conoscenza serve a capire, a cercare di capire, come si fa (a mettere insieme libertà e sviluppo, protezione e uguaglianza, nda). E dovrebbe servire anche a parlare, facendo discorsi veri piuttosto che infilando una sequela di battute più o meno felici”[4]. Sul tema della nuova potenzialità politica rappresentata dal Parlamento, interviene proprio questa mattina Michele Ainis per fare una robusta quanto discontinua quadra attorno alla “praticabilità”: “Occorre rovesciare il punto di partenza. Procediamo dai programmi, non dai programmatori. E partiamo dal Parlamento, non dall’esecutivo”[5].
- La seconda cosa è che, alla fine dell’annaspare nelle paludi delle soluzioni difficili o negate (dai numeri, dal buon senso, dal mancanza di coraggio, dall’impreparazione, eccetera), si tornerà a vedere il cielo stellato, quello blu con le dodici stelle dell’Europa in cui si definisce la parte sostanziale del rating del nostro Paese. Un’Europa – elemento di continuità – che vota nel 2019, in cui siamo paese fondatore, terza potenza, area geo-politicamente strategica e che aspetta di capire se, dopo le elezioni, stanno arrivando dall’Italia gruppi dirigenti e rappresentanti politici con idee nuove e ricette valide per dirigere il cantiere della “quarta fase” dell’Europa (gli anni della pace, gli anni del progetto, gli anni della paura e ora gli anni da ridefinire e rinominare). Oppure se stanno arrivando impreparati chiacchieroni, semplificatori e reattivi populisti, umorali prigionieri del loro marketing demagogico, che l’asse franco-tedesca ha tutto l’interesse a spingere ad ingrossare il Club di Visegràd lasciando finalmente gli italiani contendere la leadership a polacchi e ungheresi e preparando la botta finale sulla definitiva spartizione di ciò che resta dell’Italia migliore (leggere e rileggere Giulio Sapelli [6]).
- La terza cosa è scegliere il copione per affrontare il tema globale e crescente del nostro ruolo nei processi migratori. La continuità qui sarebbe quella di continuare a mascherare la politica (modello Minniti), dire che è di sinistra fare cose di destra. Mentre la discontinuità sarebbe quella di togliere la maschera, porsi il problema del governo europeo e globale di disporre di soluzioni di gestione dei processi migratori, con ascolto serio della demografia e delle nuove dinamiche produttive che liberano strutturalmente più ampie fasce occupazionali nei paesi sviluppati e quindi, verrebbe da contrapporre, dicendo che è di destra far cose di sinistra. O per meglio dire che le migrazioni sono una dominante ineludibile che per alcuni serve a compiere speculazione politica sulle paure; ma per altri versi servirebbe di più a trasformare i rischi in opportunità.
- Il quarto argomento è rimettere in asse la nostra idea della democrazia legandola alla compatibilità delle radici (l’identità), alla compatibilità rispetto al disagio e alla sofferenza (la dignità nel presente), alla compatibilità con la qualità della vita (il tema dei diritti civili e sociali proiettato al futuro). Prendo spunto dalla bella recensione con cui Roberto Esposito ha trattato di recente il libro postumo di Stefano Rodotà[7] che parte dall’analisi dello stesso Rodotà di una frase di Primo Levi: “Per vivere occorre una identità, ossia una dignità. Senza dignità, l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata”[8].
Quindi altrettanti brevi spunti.
- Far politica partendo dalle nuove opportunità di un sistema parlamentare aperto, provando a introdurre incursioni nei gruppi parlamentari (o nei gruppi consiliari nell’ambito delle autonomie regionali e locali) attorno alla convenienza funzionale (e quindi di riorganizzazione del consenso) di soluzioni che sostituiscano rapidamente l’ipotesi oggi in voga di consolidare consenso con gli anatemi.
- Scegliere la rotta europea che ci metta rapidamente nella cabina di regia del cantiere della Europa responsabile, quella che lavora per riportare a casa entro dieci anni la reintegrazione del rapporto con gli inglesi e che vuole essere alternativa (per cultura democratica e per strategie sulla sicurezza) rispetto all’opa che Putin sta lanciando sull’Europa stessa.
- Stare nella trattativa globale con i paesi che producono più migrazioni (Africa, Asia, America latina), oggi con economie fondate largamente sulle rimesse degli emigranti (come per quasi un secolo fu per la stessa Italia) e con i paesi che producono risposte e nuovi assetti all’ibridazione del terzo millennio, avendo un piano nazionale e territoriale sulla sostenibilità vera delle migrazioni che, come i tedeschi stanno tentando da tempo, costituisca anche un fattore non passivo per operare scelte e orientamenti.
- Non regalare il tema dell’identità ai leghisti, non regalare il tema della dignità alla fiction, non regalare il tema dei diritti ai giuristi. La Lega ha operato una stupefacente e brillante incursione nell’autolesionismo della sinistra che ha preferito il taglio della memoria rispetto al rischio di auto-criticare il proprio percorso ideologico. La fiction ha avuto più forza di racconto della valorialità delle persone comuni di quello che la maggior parte dei partiti “progressisti” è riuscita a dire nel corso della decennale crisi che ha proletarizzato il ceto medio. La società è “civile” non quando contempla i suoi successi, ma quando vuole che la politica riconosca e normi bisogni che non sono ancora diventati diritti. In ciò i giuristi sono preziosi, ma non necessariamente la forza motrice.
Molti altri gli spunti possibili, cercando di evitare il paradosso involutivo dei partiti maggiori che perdono la bussola in nome del loro inevitabile cerchiobottismo. Sono gli spunti che possono essere stimolati e accolti, pensando ad esempio al ruolo ancora rabdomantico che l’esperienza post-azionista che stiamo consolidando[9], anche nei territori del civismo progressista territoriale, cerca di promuovere.
[1] Scrive Mauro Magatti in Nuovi partiti, vecchi temi. Ora si deve passare ai fatti (Corriere della Sera, 30 marzo 2018): “Chi ha registrato prima e più distintamente tale cambiamento è l’uomo della strada, che vive con meno protezioni di quante ne abbiano le èlite. Da qui nascono le nuove domande a cui le vecchie ricette non sanno dare risposte. Lo spostamento del voto dice di una opinione pubblica alla ricerca di soluzioni che non trova”.
[2] Interessante l’intervista di Mattia Ferraresi a Patrick Deneen, a proposito del suo Why Liberalism Failed (Yale Univertsity Press, 2018), I fallimenti del liberalismo, Il Foglio 2 aprile 2018.
[3] Giuseppe De Rita, Gli elementi di continuità nel vento di cambiamento, Corriere della Sera, 6 aprile 2018.
[4] Ernesto Dalli della Loggia, Ora Renzi esca dalla tenda, Corriere della Sera, 2 aprile 2018.
[5] Michele Ainis, Per un governo dei prestanome, la Repubblica,7 aprile 2018.
[6] Da Capitalismi. Crisi globale ed economia italiana, 1929-2009, con Ludovico Festa Milano, Boroli, 2009 a L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Milano, Guerini, 2012; da Chi comanda in Italia, Milano, Guerini, 2013 a Il potere in Italia, Firenze, goWare, 2014.
[7] Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, Laterza, 2018.
[8] Roberto Esposito, L’ultima lezione di Stefano Rodotà, la Repubblica, 31 marzo 2018.
[9] Per verificare qualche elemento portato nella campagna elettorale italiana, il contributo di chi scrive alla tavola rotonda su “Federalismo europeo e partecipazione democratica” promossa da Più Europa a Milano il 25 febbraio 2018 è al link https://wp.me/p9vAjS-7H