Morire per Tripoli cento anni dopo l’occupazione italiana della Libia? Stando alla risoluzione Onu 1973, è un’ipotesi poco probabile, ma siamo di fronte a uno scenario nuovo, una guerra nel Mediterraneo che vede contrapposte e in prima linea le due sponde del Mare nostrum. Certo c’è anche la flotta statunitense con i suoi Tomahawak e i suoi aerei a giocare un ruolo centrale. I missili lanciati in questi giorni stanno a dimostrare che Washington non intende lasciare l’iniziativa all’alleato francese e vuole mantenere il proprio primato dopo le incertezze iniziali.
Lo schieramento contro la Libia però non è compatto: la mozione Onu è stata approvata da dieci Paesi su quindici e le divisioni palesi e nascoste a vari livelli rischiano di rendere arduo un compito che ancora due settimane fa sembrava di facile attuazione. Ad astenersi in Consiglio di sicurezza sono stati i paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) oltre alla Germania. I caratteri geografici hanno una importanza minore, la Libia è anche, o forse soprattutto, una questione di principio: quel principio è la democrazia. Ma la partita va oltre la battaglia di principio e vede, sul piano degli interessi economici, un Occidente economicamente indebolito dalla crisi del 2008, e in declino di fronte all’ascesa della Cina e degli altri Paesi emergenti, che infatti non hanno votato a favore della risoluzione Onu.
Per l’amministrazione Obama sarebbe difficile sostenere un regime che dispiega l’esercito contro i manifestanti come fanno Corea del Nord, Birmania, Iran, e in seconda linea potenzialmente anche la Repubblica Popolare Cinese. Metà del mondo occidentale lo dice, l’altra metà lo pensa: ieri al Cairo, oggi a Tripoli, domani a Pechino. Le rivoluzioni sono contagiose e dilagano con estrema velocità. Fin qui una scuola di pensiero. Ma per una seconda l’attuale situazione in Nord Africa non presenta grossi rischi per Pechino. Se la transizione verso la democrazia funziona sulle sponde del Mediterraneo, la Cina potrebbe accelerare il processo di riforme politiche. La lezione di Tienanmen è stata stoppare le proteste di massa e reprimerle avviando le riforme. Oltretutto i tentativi di esportare la democrazia occidentale verso il mondo islamico sono tutti falliti. A Teheran, circa trent’anni fa, un presidente democratico americano, Jimmy Carter di fatto autorizzò la caduta dello scià; in pochi mesi i moderati iraniani, inizialmente a capo delle proteste, cedettero la mano ai fondamentalisti islamici di Ruhollah Khomeini.
La rivoluzione religiosa iraniana fu la pietra tombale di Carter. Né agli Usa è andata meglio quando hanno provato a pilotare i processi democratici dall’interno, come in Iraq e Afghanistan. Questo spiega la prudenza statunitense, il ritardo con cui ha preso forma la reazione alla odiosa repressione del colonnello Gheddafi e la scelta di evitare un intervento di terra. Spiega meno la freddezza con cui Russia, Cina, India e Brasile, hanno affrontato la vicenda e la loro astensione all’Onu. A meno di non voler vedere questo conflitto come forse l’ultimo delle vecchie potenze (Usa, Gran Bretagna e Francia) mentre quelle nuove stanno alla finestra in attesa di potere essere loro gli architetti del nuovo ordine globale. Certo il silenzio con cui Mosca e Pechino avevano seguito l’insurrezione in Nord Africa e i moti di piazza Tahrir non erano passati inosservati. La protesta egiziana aveva spaventato Siria e Libia, Arabia Saudita, tutte timorose del contagio. Qualche timore era sorto anche in Paesi meno vicini, ma difficile spiegare solo cosi quella che due mesi dopo è diventata una posizione comune o quasi.
L’inizio delle ostilità ha reso ancora più distanti le posizioni delle diplomazie. Le divisioni intraeuropee erano chiarissime già nelle scorse settimane. L’attivismo francese si è subito scontrato con l’attendismo tedesco che appunto all’Onu non ha votato a favore della mozione contro la Libia schierandosi insieme ai Bric. Mosca già tiepida prima, è uscita allo scoperto ieri subito dopo i primi bombardamenti e ha bollato come “frettolosa” l’offensiva militare, chiedendo un cessate il fuoco. La linea di Mosca va oltre l’astensione e si muove verso la rivendicazione di un proprio copione. Questo il motivo per cui il Cremlino alza la voce e tenta di ritagliarsi un ruolo come aveva fatto con il Kosovo. Un tentativo non semplice, ma in scia con la posizione presa dall’Unione africana che rifiuta ogni intervento militare straniero, quale che sia la forma. Secondo il presidente mauritano Mohammed Ould Abdel Aziz la situazione in Libia «esige un’azione urgente per una soluzione africana alla gravissima crisi che sta attraversando questo paese fratello». I membri dell’Unione oggi si recheranno in Libia.
Le partite diplomatiche sono più d’una e spesso si collegano e sottendono partite economiche più difficili da registrare. Il leader libico Gheddafi aveva invitato a febbraio le aziende di Cina, Russia, India a intervenire nel paese per sfruttare le risorse di greggio libico dopo l’abbandono del paese da parte della maggior parte delle compagnie occidentali. Un tentativo plateale e volto a creare ulteriori differenziazioni nello schieramento avverso più che ad avviare in tempi rapidi nuove partnership in campo energetico o nelle ricche commesse avviate dal regime libico. Ma chissà che non abbia trovato orecchie interessate. Quanto al Brasile il tentativo di trovare un suo ruolo sullo scenario mondiale è evidente e basta ricordare quanto avvenuto l’anno scorso quando ha mediato con Ankara sul nucleare iraniano nonostante le perplessità Usa. Mentre l’India, che punta apertamente a un seggio permanente al Consiglio di sicurezza, si è spinta fino a condannare l’intervento militare alleato subendo la critica che la più grande democrazia del mondo ha preferito comportarsi come la Cina pur avendo l’ambizione di essere un giorno un vero Paese leader.
L’Italia ha pesanti interessi in gioco ma non è la sola. Dalla Libia dipendiamo per energia, scambi commerciali, e investimenti reciproci, per non parlare dei pacchetti azionari. La caduta di Gheddafi rischia di essere una caduta di sistema anche per noi. E questo contribuisce a spiegare i balbettii della diplomazia e del governo italiano. Anche la Cina gioca pesante nello scacchiere africano e punta a radicare la propria presenza a tutti i livelli. L’Africa trova nel suo alleato cinese un contrappeso all’Occidente che non avrebbe senza l’aiuto di Pechino. Trova soprattutto un partner meno ingombrante di Europa e Stati Uniti. Da qui al 2020 Pechino importerà l’ 80% del suo consumo di petrolio e vuole evitare a ogni costo il rischio di una diminuzione dell’approvvigionamento di energia, con drammatiche conseguenze per la crescita economica.
Ancora una volta torna in ballo la grande questione energetica, ovvero la corsa dei Paesi occidentali ai grandi bacini di approvvigionamento. Questa volta però sono entrati in partita anche i giganti asiatici, Russia, Brasile e Turchia. Lo schema è sempre uguale: investimenti, soprattutto in infrastrutture, in cambio di concessioni petrolifere. Vale in tempi di pace, in tempi di guerra si devono cambiare gli schemi, ma quando i giocatori in campo sono troppi il compito diventa arduo.