La società è quotata ma decide il Governo

La società è quotata ma decide il Governo

La stagione delle nomine è partita in anticipo: in genere si aspettava la primavera in vista delle Assemblee societarie di maggio e giugno, ma c’era una certa confusione, era difficile fissare un calendario preciso, si rischiavano distrazioni tattiche per cui quest’anno si e’ deciso un calendario rigido, una sorta di election day applicato alle imprese. Per tutte le società pubbliche assemblee il 28 aprile e, visto che le liste vanno presentate 20 giorni prima, nomine pronte per l’8 aprile. Un primo passo in avanti rispetto a tre o sei anni fa, quando la partita si dispiegava tra maggio e giugno con dispendio di energie e prolungate incertezze. Resta da capire se questa prima mossa abbia anche espresso un gioco nuovo, meno legato ai vizi degli schemi precedenti. I motivi per dubitarne non mancano.

Oltretutto il perimetro del campo di gioco si è sensibilmente allargato. Tradizionalmente le nomine pubbliche hanno riguardato le ex società a partecipazione statale il cui controllo è rimasto in capo al ministero del Tesoro: Eni, Enel, Finmeccanica. Poi si sono aggiunte le nuove spa, Poste, Ferrovie, poi ancora le società nate dalle prime o da queste controllate, Terna e Enel Green Power ad esempio. Per simpatia o osmosi, in tempi recenti il discorso si è allargato ad una altro genere di ex partecipate: le banche. In fondo sono società con un azionariato diffuso, senza una presenza significativa del Tesoro, ma la capacità di intervento della politica attraverso le fondazioni azioniste è sensibilmente cresciuta. Il prologo della partita si è avuto lo scorso anno con la forzata uscita di scena di Alessandro Profumo da Unicredit. E come nelle migliori tragedie greche, una voce narrativa aveva spiegato l’antefatto. Era quella del leader della Lega, Umberto Bossi, non una divinità come vorrebbe la tradizione, ma una sua personificazione che si rivolgeva agli ascoltatori in un monologo destinato a spiegare l’azione scenica prima del suo vero inizio. «E’ chiaro che le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri ad ogni livello. La gente ci dice prendetevi le banche e noi lo faremo» aveva detto ad aprile. Detto fatto come dimostrò nei mesi successivi la vicenda Unicredit.

Ma quest’anno la stagione è stata aperta da una società privata, ex pubblica, saldamente in mano ad azionisti di rango, vale a dire Telecom Italia che nel weekend ha chiuso il discorso nomine. I tre nomi decisi all’unanimità da Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo sabato notte saranno nominati dall’assemblea di aprile per i prossimi tre anni. Insieme a loro è passata anche la lista di maggioranza del socio Telco. L’accordo sulla nuova governante di Telecom rappresenta un compromesso, ma secondo l’interpretazione corrente è passata la linea di Mediobanca che chiede un parziale segnale di discontinuità per dare spazio ai manager più giovani. Rientra nel diritto di Mediobanca, ma si ripropone il problema di quel ristretto manipolo di banche e imprese private in gran parte collegate tra di loro per mezzo di partecipazioni azionarie incrociate che lega destini e interessi di decine di aziende. Il cuore della rete di partecipazioni incrociate muove attorno ad un asse costituito da Mediobanca e dalle Generali. E, come ha messo a nudo la recente polemica tra Della Valle e Geronzi, non sempre sono gli interessi della società o dei suoi azionisti a muovere le gesta di alcuni manager di lungo corso chiamati a guidare quelle stesse società.

Giusta probabilmente la richiesta di una parziale discontinuità e di fare spazio ai giovani, ma gli azionisti minori avrebbero forse voluto capire qualcosa di più sulle future strategie di Telecom, su luci e ombre della gestione di questi tre anni, sul cambio della guardia rispetto alla gestione Tronchetti Provera, sui profili dei giovani chiamati al comando. Maggior trasparenza insomma, tanto più necessaria visto che uno dei due giovani nominati, Luca Luciani, indagato per truffa aggravata ai danni dello Stato e false comunicazioni. Franco Bernabè rimane alla testa di Telecom e ha sempre ripetuto che una grande azienda ha bisogno di “tempi lunghi e cure intensive”: i fatti e i suoi azionisti gli hanno dato ragione, ma ancora una volta le decisioni sono state prese fuori da un consiglio o da un’assemblea. Questa volta non sono stati necessari mesi di discussioni come nella puntata precedente, ma le motivazioni restano piuttosto oscure.

Largo ai giovani è una di queste, si dice. E’ sempre un buon motivo ma gioca spesso come un richiamo per le allodole. Sei anni fa Vittorio Mincato venne sostituito alla testa dell’Eni con Paolo Scaroni tra infinite polemiche e proteste. Il cambio della guardia aveva poco senso se si guardavano i risultati ottenuti dal gruppo, il valore del titolo raddoppiato, l’ammontare dei dividendi versati al Tesoro. Il ministro Giulio Tremonti, autore del ribaltone, dovette intervenire direttamente per spiegare che la sua scelta non era riconducibile ad un discorso di simpatia o antipatia, ma a fattori più nobili e generali. «Mi sembra giusto che a prevalere sia la categoria dell’anagrafe» scrisse. A 68 anni Mincato era troppo vecchio per l’Eni.

Se questo criterio dovesse applicarsi anche in questa tornata Tremonti dovrebbe mandare a casa quasi tutti i presidenti e non solo. Il potente presidente e ad di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, ha appena festeggiato i 74 anni ma non è affatto improbabile venga riconfermato. Difficilmente quest’anno passerà la linea dell’anagrafe nonostante, complice anche la crisi, nessun amministratore possa vantare corsi azionari brillanti o semplicemente migliori a quelli di sei anni fa, fatta eccezione per il quarantottenne Flavio Cattaneo in Terna. Che non sembra in odore di “promozioni”. 

Ma non è ovviamente un discorso di carattere generazionale quello delle nomine: va oltre. La domanda è perché la privatizzazione e la quotazione in borsa del patrimonio industriale e finanziario di questo paese non abbiano permesso un affrancamento dal potere e che venisse riconosciuto agli azionisti, piccoli e grandi, il ruolo che il mercato prevede per loro. Ma soprattutto perché non abbiano reso contendibile il controllo delle aziende. Società pubbliche e private sembrano accomunate dall’incapacità di sfuggire ad un rigido controllo centralizzato che si esercita attraverso quote di maggioranza relativa, e fin qui tutto normale, o strumenti più complessi e non sempre limpidi, quali sindacati di voto, partecipazioni incrociate, piramidi societarie, fondazioni bancarie, influenza dei partiti e altro. 

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