Obama sulla Libia rischia due pesi e due misure

Obama sulla Libia rischia due pesi e due misure

È solo la propaganda repubblicana a pretendere che Barack Obama adotti anche con l’Arabia Saudita lo stesso “standard anti-regime“ applicato ai rapporti con la Libia. La questione è spinosa per il presidente democratico: poiché ha condannato Gheddafi per la repressione contro le folle in rivolta, altrettanto dovrebbe fare nei confronti dei reali sauditi, nel caso intervenissero violentemente e su larga scala contro la ribellione della popolazione sciita nel Regno. Come già accaduto in Bahrain dove scontri violenti tra manifestanti antigovernativi e forze di sicurezza, con l’appoggio anche militare dei vicini Sauditi che vedono il piccolo Stato come un loro protettorato, sono in corso oggi nella capitale Manama dopo i morti negli scontri di ieri.

È un paragone suggestivo, quello dei critici del presidente. Sia in Libia, che in Arabia Saudita, a ribellarsi sono gruppi che vivono nelle zone più ricche di petrolio dei due Paesi: vivono al cuore dell’economia nazionale. In Libia la situazione è sembrata volgere all´inizio in favore dei ribelli della Cirenaica, ed è stato immediato per Washington prendere la loro parte a parte, almeno a parole. In Arabia Saudita le proteste sono molto più “romantiche”, con possibilità di successo pressoché nulle. In Bahrain invece la situazione rischia di sfuggire di mano e i sauditi non stanno ascoltando le richieste Usa di non forzare la mano.

Obama è stato accusato di voler adottare un “doppio standard” nei confronti di sauditi e libici. Una volta condannato Gheddafi, dovrà condannare anche i sauditi? Si trova adesso intrappolato in un’impasse. Se intervenisse in Libia, non avrebbe moralmente più scuse per tenersi fuori dai giochi sauditi e più in generale nel Golfo. Da qui anche la decisione di non spingersi troppo oltre nel sostegno ai ribelli della Cirenaica: Obama tentenna sulla decisione di imporre una “no flight zone” nel Paese. Anche le negoziazioni Nato non procedono alla velocità desiderata da alcuni membri, con la Francia per prima.

Il problema vero, però, non è Obama: è l’America stessa. Il modello egemonico americano mostra qui i suoi limiti: in tanti decenni, non è riuscito a trasformare l’Arabia Saudita, tradizionale alleato nel Medio Oriente, in una democrazia. Se adesso il re Abdullah dovesse mettere in atto repressioni e altre brutali contromisure, a casa come fuori, l’America non potrebbe intervenire, anche perché non avrebbe alcun titolo per farlo. I critici repubblicani stanno compiendo un errore: confondere le rivolte arabe con la fioritura della democrazia sognata da George W. Bush. Si tratta in realtà di rivolte identitarie, ancor prima che democratiche, e l’America non ha il ruolo di modello ed esempio che ritiene di avere.

Si tratta però di un “errore” che fa presa sull´elettorato americano: i repubblicani possono così continuare a guardare con nostalgia a Bush, e nel frattempo possono colpire il sostegno popolare di Obama, evidenziando l’incoerenza del presidente democratico.  È un gioco molto pericoloso, perché potrebbe impedire agli Stati Uniti di intervenire in Medio Oriente in un momento così delicato. Impedisce loro d´impegnarsi più a fondo al fianco dei ribelli della cirenaica libica. Attualmente, il rischio maggiore per gli Stati Uniti proviene dalla Cina. L´Arabia Saudita sostiene apertamente le mire cinesi verso Taiwan, la Cina importa grandi quantità di petrolio dal paese mediorientale. Al 2008, i sauditi erano i principali fornitori esteri del greggio destinato a Pechino. Nel 2009 la Cina ha superato gli Stati Uniti come principale acquirente estero di petrolio saudita, e il giro di affari tra i due paesi ha superato i 40 miliardi di dollari. Per Washington, in Medio Oriente più della morale potrà la ragion di stato.
 

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org

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