Sono decisamente tanti i sette miliardi di euro l’anno che l’Italia dovrebbe spendere per incentivare gli impianti fotovoltaici negli anni a venire. A fine 2010 gli impianti completati e connessi coprivano un totale di 2.800 MWp, e avevano prodotto lo 0,54 percento della nostra energia, con una spesa per incentivi di 800 milioni di euro. In base alle bozze pubblicate dal ministero dello Sviluppo Economico, nel Quarto Conto Energia si prevede un obbiettivo di potenza totale di 23.000 MWp: da qui il calcolo proposto per l’immane spesa a venire.
Ogni decisione sul Quarto Conto Energia è rinviata alla conferenza stato-regioni di domani, che si riunirà in seduta straordinaria. Le associazioni di categoria si oppongono alle eccessive diminuzioni negli incentivi. Fino a fine 2012 le tariffe caleranno in maniera molto netta: da giugno a dicembre 2011 i bonus per gli impianti superiori a 1MWp diminuiranno del 30%, e di un ulteriore 20 % nel 2012. Nell’anno successivo ci saranno ulteriori cambiamenti per ricalcare il sistema adottato dalla Germania, con tariffe diverse se l’energia viene interamente venduta, o in parte consumata.
I sette miliardi di euro l’anno a regime, dicono alcuni, creeranno «industria». È possibile, ma non dobbiamo dimenticare che l’elettricità non è un bene finale, come può essere un’automobile o un computer, ma un fattore produttivo. Per cui, se diventa più caro, il costo maggiore deve essere sopportato da tutte le imprese, che diventano meno competitive sui mercati internazionali – e i loro beni diventano più cari anche per noi. Non sorprende la scelta della Cina, che esporta la stragrande maggioranza dei pannelli fotovoltaici che produce.
Il vero problema di tutta la discussione riguarda un punto che nessuno ha avuto finora l’opportunità di sollevare. Quella che si sta discutendo in questi giorni non è un piano di sviluppo, ma l’imposizione di una tassa. Poco importa che le tariffe siano pagate in bolletta, e siano poi automaticamente “girate” ai proprietari degli impianti. Lo stato ha un ruolo di “agente per l’imposizione”, fissando i prezzi a cui tutti devono obbligatoriamente comprare un bene, a prezzo maggiorato.
Da consumatore ci si aspetterebbe che lo Stato sia almeno un buon negoziatore dell’elettricità fotovoltaica che compra. La struttura scelta per gli incentivi dimostra però che si punta ancora ad approcci vetusti e semi-assistenziali per le politiche industriali.
Non si capisce perché gli incentivi debbano essere più alti oggi, e calare progressivamente nel tempo, in maniera pre-ordinata. In tanti anni di esperienza abbiamo più o meno capito che costi e quali investimenti richiede un impianto fotovoltaico. Una politica flessibile di incentivi dovrebbe considerare i costi reali di pannelli, inverter e compagnia – anziché “prevederli” con una serie di diminuzioni successive.
Da questo punto di vista, il punto di partenza sarebbe quello di scegliere che rendita devono comportare gli impianti. Per esempio, potrebbe essere del 5 percento (di poco superiore all’immobiliare). Da qui, tramite studi di settore, si potrebbe fare in modo che gli incentivi siano regolati in maniera sensibile sulla situazione reale del mercato.
È chiaro che gli studi di settore sarebbero qualcosa si estremamente sensibile. Ma se si riuscisse a introdurre un meccanismo simile, si eviterebbe tutta la serie di storture che l’approccio attuale comporta. La nuova bozza prescrive cap annuali e diminuzioni fisse in base a scadenze temporali, che rendono imprevedibile la redditività – e con essa la finanziabilità.
Eppure, è solo con un sistema di “incentivi intelligenti” che passeremmo da una politica assistenzialista a una vera politica industriale. Sarebbero anche uno sprone a maggiori livelli di efficienza: giusto per rassicurare i consumatori sul fatto che quei sette miliardi l’anno saranno spesi nel miglior modo possibile.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e autore di «La guerra del clima – Geopolitica delle energie rinnovabili»